“Ogni uomo è un ossimoro”. Appunti di lettura intorno a Di bestia in bestia di Michele Mari
di Antonella Falco 12-09-2019
Nel magma spesso amorfo di tanta narrativa contemporanea, destinata a lasciare il tempo che trova e a scomparire rapidamente nel limbo dei testi fuori catalogo, Michele Mari si distingue nettamente per originalità di stile e d’ispirazione e per un talento che sa fondere l’erudizione raffinata e la preziosità della lingua con l’urgenza e la sincerità di una scrittura profondamente autobiografica. Non sorprende che il suo nome figuri al primo posto nel sondaggio che la rivista Orlando Esplorazioni ha realizzato, nel suo settimo numero, chiedendo alle nuove leve della critica italiana di indicare tre nomi, tra gli autori aventi oggi un’età compresa fra i quarantanove e i sessantanove anni, che a loro avviso saranno ancora letti nei decenni futuri. Il primato dello scrittore milanese non stupisce se si considera che in lui la letteratura sublima se stessa e che in nessuno, tra gli scrittori viventi, come in Mari si compendia il perfetto binomio tra arte e vita, tra prassi esistenziale e dichiarazioni di poetica, tra ispirazione e predestinazione.
A sottolineare il patrimonio prezioso che Mari incarna per le sorti delle patrie lettere è anche Tommaso Pincio, il quale dalle pagine del suo blog, in occasione dell’uscita di Roderick Duddle, tracciò un profilo dello scrittore che iniziava con queste parole: «Chiunque nutra passione per lo splendore della lingua italiana non può che avere cara l’esistenza di Michele Mari. Tra gli scrittori viventi, nessuno è al pari di lui. Nessuno eguaglia la vastità del suo lessico, i suoi volteggi sintattici».
Poc’anzi ho usata la parola “predestinazione”, nessun’altra a mio avviso vale a descrivere il rapporto di Mari con la scrittura, un rapporto iniziato come ludico divertimento infantile all’età di otto anni, con un raccontino, L’incubo nel treno, già presago delle atmosfere e dei temi che avrebbero contraddistinto le opere dello scrittore maturo. La cosa che maggiormente sorprende in questa primissima prova letteraria di Michele Mari è il suo collocarsi già nell’alveo di una tradizione, esistendo nella letteratura otto-novecentesca «un vero e proprio topos del treno inquietante».1
Ovviamente per quanto il piccolo Mari sia stato un enfant prodige sarebbe eccessivo ipotizzare che alla tenerissima età di otto anni abbia avuto contezza dell’intera tradizione letteraria otto-novecentesca al punto da concepire consapevolmente un racconto capace di inserirsi a pieno titolo in quel filone. Una ragione di più, dunque, per credere alla tesi della predestinazione. Se poi si legge quanto lo stesso Mari scrive nelle pagine introduttive de I demoni e la pasta sfoglia – e avviso preliminarmente il lettore che non si dà predestinazione senza che ciò a cui si è predestinati divenga necessariamente ossessione – qualsivoglia dubbio superstite verrà definitivamente fugato: «Ossessione è da assedio, ma il suo nome scientifico, anancasma, è da destino, ananke».2
Erede di una tradizione di cui non è semplice epigono ma rielaboratore originale al punto da farsi a sua volta antesignano, Mari dimostra che si può essere giganti sulle spalle dei giganti, essere affetti da una monomania tematica senza tuttavia ripetersi mai, raccontare con voce inconfondibile ma modulata ogni volta con l’abile maestria di un ventriloquo e, infine, per dirla con le sue stesse parole, da lui usate a proposito di Stevenson, avere «una fantasia inesauribile perché parla solo di sé, perché sa parlare solo di sé e perché vuole parlare solo di sé».3
Autobiografico quant’altri mai, Mari è uno scrittore che scrive di sé anche quando sembra scrivere d’altro: ogni suo personaggio risulta essere in ultima istanza una proiezione dell’io autoriale, un brandello della propria carne riplasmato in figure capaci di far rivivere ricordi d’infanzia o avventure mancate, in ossequio, queste ultime, a un’idea della letteratura intesa anche come compensazione e alternativa nei confronti della vita (poco) vissuta.
La narrativa di Michele Mari si caratterizza inoltre per l’intrinseca raffinata tendenza al gioco letterario e alla divagazione colta e per un citazionismo che mette costantemente alla prova l’erudizione del lettore.
Questi due aspetti della narrativa marista si trovano profondamente amalgamati fin dal primo romanzo dello scrittore, quel Di bestia in bestia edito per la prima volta nel 1989 ma iniziato a scrivere a partire dal 1980 e tornato nelle librerie nel marzo del 2013 in una nuova versione ottenuta dall’autore sottoponendo «il testo originale a una serie continua e capillare di tagli, suturando con interventi minimi le parti superstiti».4 Un romanzo che Mari non esita a definire il libro della sua vita e che un sottotitolo, presente nella prima edizione ed eraso nell’ultima, definiva «una storia vera tra languore e ardore».
Vi fanno la loro prima comparsa alcune delle tematiche topiche della narrativa di Michele Mari, in primis il dissidio profondo tra natura e cultura, tra istinto ferino e sublimazione artistico-letteraria, tra carne e spirito, quello stesso dissidio che trova la sua sintesi letteraria più esatta e proficua nella figura del doppio.
Qui la dualità oppositiva di apollineo e dionisiaco si incarna rispettivamente nell’urbano e colto Osmoc e nel furente e selvaggio Osac. Nel primo risiede un’intelligenza superiore, nel secondo una ferinità allo stato bruto, nel primo la natura ha riversato una sovrabbondanza di doti intellettive, al secondo ha riservato soltanto una forza immane. I due sono fratelli, per giunta gemelli. L’abominevole dicotomia di questo parto gemellare è peraltro perfettamente esemplificata nei nomi di battesimo dei due fratelli che se anagrammati rinviano il primo, Osmoc, al termine “cosmo” (dal greco kósmos = “ordine”) e il secondo, Osac, alle parole “caos” e “caso”, entrambe implicanti il concetto opposto di “disordine”.
Non è privo di interesse sottolineare che anche i tratti somatici di Osac subiscono una sorta di metamorfosi abbrutente, quasi il corpo rechi l’impronta speculare della ferinità dell’animo. Sembra anzi che qui Mari si sia divertito ad applicare in letteratura lo stile pittorico di Francis Bacon – che della deformazione dei corpi e dei volti ha fatto il suo marchio distintivo (si pensi ad esempio alle famose manipolazioni del ritratto di Innocenzo X di Velasquez) – facendo di Osac la manipolazione in chiave deforme ed espressionistica della signorile figura di Osmoc:
Me lo trovai di fronte, erto della corpulenta persona, furiante, scarmigliato come una gorgone virile. Era Osmoc, non c’era alcun dubbio, ma quantum mutatus ab illo! Tutto in lui assecondava suo stato presente, persino le unghie (già curatissime) erano adesso capace ricetto d’ogni più sordida gromma, persino le ciglia eran sostegno ad una abbominevole cispa… L’occhio sinistro d’assai più grande del destro, innaturalmente dilatato in un’espressione di ferino trionfo (tale doveva essere lo sguardo con cui il crudele Vathek fulminava gratuito i suoi sudditi)…5
Anche la concezione del sentimento amoroso in Di bestia in bestia segue la dicotomia oppositiva di carne e spirito: da un lato l’amore platonico e di matrice stilnovista di Osmoc, completamente avulso dal commercio dei corpi, (esemplificato nella massima «guardare e non toccare»)6, dall’altro la precocissima e incontrollata esuberanza sessuale, scevra di sentimento, di Osac. Da una parte la sublimazione del sentimento fino alla sua sterile rarefazione, dall’altra l’indistinta e smodata brama dei sensi, l’eccitazione fine a se stessa. Sublimazione e frenesia incapaci di fondersi in una sintesi equilibratrice e pertanto, in ultima istanza, votate entrambe ad una asettica anaffettività.
In mezzo a cotanto sciagurati amanti si colloca la figura di Emilia, donna angelicata di stilnovistica ascendenza – o almeno tale la vorrebbe Osmoc – la quale tuttavia è per niente intenzionata ad aderire ai libreschi e stantii dettami dell’amor cortese, di cui sovverte tutte le regole:
Lei mi voleva. Non mi garbava che mi volesse, non era previsto, quando mai madonna ha manifestato disío per il suo rimatore servente? Non doveva, a rigore non avrebbe dovuto far nulla, doveva soltanto restar sullo sfondo, avrei pensato io a tutto, io con il sogno dei versi sognanti che fanno sognare, abba abba cidicí dicidí… Invece lei non stava al gioco, e mi voleva. In tutti i sensi, questo era il punto. Naturalmente io mi schermivo, ma lei voleva più di quanto io disvolessi, ed ogni giorno di piú mi sentivo incalzato, e debitore insomma di un sí ovvero di un no… Ai suoi occhi ero ancora lo svagato che si nasconde per timidezza o per vezzo: pure qualcosa bisognava fare, e presto, altrimenti, come celiando m’avea pur minacciato, “se ne sarebbe andata per sempre, né piú mai l’avrei vista”.7
La soluzione escogitata da Osmoc si rivelerà quanto mai infelice, innescando una serie di drammatici eventi che sfuggiranno del tutto al suo controllo. Infatti, non volendo rinunciare all’amata compagnia di Emilia, alla quale si unirà in matrimonio, ma rifuggendo fieramente l’idea di avere con lei rapporti fisici, Osmoc elabora un piano in base al quale sarà suo fratello Osac a sostituirglisi nel talamo nuziale e a soddisfare Emilia ogni qualvolta le circostanze lo richiederanno:
È l’ora cruciale (sí presto?) Con mossa furtiva del braccio comprimo a salute il bottone occultato. Conto in silenzio fino al numero tredici, secondi ch’impiega il mio agile frate a salire strisciando. Premendo altro tasto sospendo ogni elettrico corso al palazzo. Simulo tandem una caduta dal letto. Mentre a veder coi suoi occhi indarno lei cerca accendere il lume io apro nel suolo l’invisibile botola donde ligio ai precetti sortisce veloce il gemello, e perentro m’infilo a mia volta. Previamente dotato di pigiama identico al mio, e rasato e deterso le membra (asperse d’aromatiche essenze a lenirne l’afrore), Osac entra nel letto in mia vece mentr’io riattivo, per ulteriore pulsante ipogeo, l’elettricismo sospeso: ritorna la luce ma ricovrato vedendomi al fianco lei tosto fidente la spegne, ripete l’approccio… Io frattanto son sceso in cantina, e risalendo per la scala usuale (ruotato di poco lo scaffal de’ salumi) m’appresto a seguir lo scabroso prosieguo dallo speglio-finestra (licenza che non presi se non in quella prima occasione), pronto alla difesa de l’amata consorte qualor tralignasse ‘l gemello… Ma non traligna. Ecco la costringe in sue braccia possenti (intuisco brividendo nel buio), ecco la priva dei superstiti veli, ecco… Ma distolgo orrificato lo sguardo, non voglio sapere… Non voglio… In uno sforzo supremo cerco di riaccostare lo sguardo (sapere, sapere, bisogna sempre sapere!)… Ah! Non ci riesco… Non è successo niente, non voglio sapere, per me non succede assolutamente nulla… Non guardo… Oh dannazione sbrigatevi! E tu che signoreggi il mio cuore, affrettati a tornare quella di sempre, quella che sola conosco… Sapendo per lunga esperienza quaj fossero di mio fratello li tempi ridiscendo in cantina (riaccosto i salumi) e risalgo quindi a la botola ascosa, che trepido nella penombra dischiudo… È l’ora del cambio, perché quella bestia non accenna all’uscita? Consulto il cronometro, il momento è pur quello, evidentemente qualcosa non sta funzionando… Approfittando del buio m’adergo qual già da l’avel Farinata, m’adergo e constato che ‘l mio viril consanguineo sta ripetendo l’impresa amatoria… Questo gli costerà molti vasi di miele, decido entro me che non potrà cibarsene affatto per tutto l’arco d’un mese… Richiudo sovra ‘l mio capo ‘l coverchio e mi rannicchio nell’angusto pertugio in attesa del cambio auspicato… Grandissima angoscia! Ma ancora una volta l’attesa mi viene delusa, e una terza e una quarta e una quinta, ché sempre quel gemino ottuso va replicando suoi amplessi furiosi, inesausta energia attingendo da’ suoi lombi capaci… E finalmente (spossata, la dolce mia sposa si giace incosciente) sortisce dal letto e mi bussa impreciso al coperchio, ed io apro e lui si gitta nel baratro fondo ed io esco e riottengo il mio legittimo posto nel provato giaciglio (di quanto umore era intriso, e di quale!), ad altra occasione le rampogne rinviando… E non riesco a dormire distratto dal diseguale respiro di colei ch’al mio fianco riposa e che ho appena baciato castissimo in fronte, unico dritto di mio maritale negozio… E spunta gradito il mattino e lei sorge radiosa, e mi guarda con pupilla amorosa che gratitudine parla, e rinsaldata passione…8
È questo uno dei rari casi in cui Mari affronta i temi – per lui dichiaratamente scabrosi – dell’amore e del sesso. «Alcuni temi» – ha infatti affermato in un’intervista – «per me sono tabù, nel senso letterale del termine, perché so che lì darei il peggio di me, la mia prosa sarebbe opaca, stentata. Per esempio storie d’amore, scene di sesso».9
Nonostante la difficoltà dichiarata, le rarissime volte che Mari si è cimentato nella trattazione di scene erotiche il risultato è stato tutt’altro che opaco. Ne è una prova un godibile passo tratto da Rondini sul filo nel quale viene descritto il patetico pseudo atto sessuale di un impotente. È una scena che si imprime nella memoria, caratterizzata com’è da una prosa incalzante e immaginifica, persino ironica malgrado lo sconquasso di sinapsi e precordi che l’argomento suscita nell’ossessionato protagonista del romanzo:
Dubbio tecnico il mio, come può un barzottume insinuarsi, con che razza di martinetti o paranchi guide cunei rotaie, come può, a questo m’annuncia che non risponderà, mi accascio sopra una lavatrice e dico Allora tornatene a Roma da sola perché non ci vedremo mai più, il mio ricatto! si allontana imprecando, io nemmeno mi volto, una statua postatomica, ancora immoto quando dopo mezz’ora ritorna, se non spiega vuol dir che ha mentito, il mio argomento, così ha dovuto, quando ha finito scendeva già il buio, disegnini abbiamo tracciato sulla sabbia, crocettine, freccette, cose sorprendenti ho scoperto, nuovi orizzonti antropologici, l’indefessa capacità umana di ingegnarsi e di accontentarsi, l’ingegno mi piace l’accontentamento lo spregio, ingannarsi, accettare, sempre forme di millanteria a ben vedere, non sarei abilitato ma oplà, come se, tutta una letteratura impotenziale ho scoperto, vasta tradizione di accorgimenti vulgati, se lui se ne intendeva! trent’anni che conosceva quei trucchi, un maestro, questo dunque ho saputo, la donna rimane a gambe chiuse, ci sarei mai arrivato, e l’uomo di sopra a gambe aperte, in questa innaturalità sta il segreto, mica sdraiato però, ma con le braccia puntellate a sollevar tutto il busto e le gambe piegate in guisa di rana, qui la donna scosta le gambe di quel minimo gioco che hanno e qui l’uomo abbondantemente cosparso di crema Nivea il barzotto ne insinua la cedevole punta sostenendo la fragile canna nel pugno, non più che la punta, e subito la donna riserra le gambe bloccando fra le cosce il segmento centrale della cannuccia, effetto ghiera sto blocco, non sgusci fuori la punta, che incistata inalveolata colà non va né avanti né indietro, scorrimenti dunque nessuno, unico movimento previsto un principio di sega, due dita dell’uomo che pinzano il residuo emergente del barzottume giusto alla sua attaccatura, nient’altro, il caso suo dieci secondi, quindici-venti poi fine, calando il barzello più nemmeno la ghiera efficeva, fine da sgusciamento senza coronamento, piacere zero brividi zero, nemmeno la più leggera alterazione del respiro, avvinghiamenti nessuno, gravame del corpaccio sulle belle membra inattuato, se m’ha ossessionato sta tecnica, ad archetipo formale ch’è assurta, l’idea che da questa simbologia conativa alcuno si deduca un sentor di sostanza… la lusinga d’averlo pur fatto…10
Mentre l’autobiografico protagonista di Rondini sul filo è affetto da una gelosia retrospettiva refrattaria a qualsivoglia rimedio, il forbito e coltissimo Osmoc di Di bestia in bestia, personaggio non meno autobiografico dell’altro, riesce a stemperare nell’erudizione qualsiasi pulsione sessuale o aggressiva. Nel primo caso Mari distilla veleno e ossessioni col suo alambicco di scrittore impareggiabile e con uno stile che omaggia il grande Céline, nel secondo stempera la tragedia nella parodia consapevole forse di come il modo tragico tout court non sia più praticabile nella letteratura moderna. Come ha ben illustrato Remo Ceserani,
in varie forme letterarie della modernità, come la lirica, il romanzo, il dramma teatrale sono sopravvissuti, in modo frammentario e rielaborato, alcuni elementi della tematica tragica, espressione non tanto del tragico quanto della «tragicità»: la lacerazione interiore, la tensione fra vita soggettiva e realtà esterna, l’esperienza dell’angoscia.11
Queste espressioni della tragicità trovano in Mari la forza di venire alla luce attraverso l’uso maieutico di una prassi parodica che accentuandone le peculiarità stilistiche e linguistiche permette di svelarne l’intima componente nevrotica la quale proprio nell’accumulo di formule paludate, erudite, e classicheggianti palesa un fondo di compiacimento feticistico.
Ciò che particolarmente colpisce in questo straordinario romanzo d’esordio è per l’appunto la perfetta compenetrazione di parodia e tragedia: sbaglierebbe il lettore che cogliesse solo la prima perché trascurando la seconda, e quindi il modo in cui questa si amalgama a quella, non comprenderebbe il senso più vero e profondo del libro, che proprio nell’inquieta mescolanza di amaro piacere e vendicativa liberazione trova uno degli aspetti di maggiore fascino. Cosa che non mancò di notare Giorgio Manganelli recensendo per Il Messaggero la prima edizione del romanzo il 20 marzo del 1989:
È possibile, anzi inevitabile, leggere questa prosa come un’impresa parodica furiosa […] ma credo si perderebbe il sapore di questo libro se non si avvertisse che la parodia raggiunge un nucleo tragico.
Infatti un altro grande tema che affiora dalle pagine di Di bestia in bestia e che forse è anche più preminente di quello relativo al dualismo tra sublimazione intellettuale e carnale ferinità, che abbiamo precedentemente sintetizzato nell’opposizione nietzschiana di apollineo e dionisiaco, è quello della cultura come arma a doppio taglio e del rapporto ambivalente che l’essere umano può instaurare con l’erudizione intesa come strumento di compensazione – e quasi risarcimento – per una vita poco vissuta, o anche come saldo approdo e sicuro rifugio dalle brutture del mondo, ma pure come forza castrante che rende inetti alla vita (quella vita che come sosteneva Pirandello «o si vive o si scrive»). Se dunque, per un verso, la cultura è strumento di innalzamento e nobilitazione dello spirito e conforto che rende più sopportabile la solitudine, dall’altro verso è potenza straniante che aliena dal mondo e dal consorzio dei propri simili, predisponendo alla misantropia e alla singolare inettitudine del genio. Insomma il rischio è che un’eccessiva erudizione produca un essere geniale ma disadattato, un novello Leopardi o un redivivo Mozart, condannato a pagare un prezzo altissimo per il proprio ingegno.
Non è chi non veda, tra la fedele schiera dei lettori di Mari, l’esasperato autobiografismo di una simile tematica e il furore vendicativo che deve aver agito da movente alla scrittura di questo romanzo, almeno nella sua più anteriore redazione.
Schiavo della propria erudizione umanistica, Osmoc è incline ad esprimersi come un libro stampato, non disdegnando una serie di colte digressioni che venendo a collocarsi il più delle volte nel bel mezzo di situazioni drammatiche producono un effetto parodico e autoparodico fortemente straniante, ulteriormente enfatizzato dall’uso di una scrittura metricamente cadenzata ad imitazione delle antiche prose ritmiche. Fin dalla sua entrata in scena Osmoc viene infatti descritto come un uomo incapace di «esprimersi senza retorica e senza insieme irriderla nell’atto stesso di farne impiego».12
Eccessi retorici e furore vendicativo – in parte mitigati e attenuati ma ancora preminenti nell’edizione più recente di Di bestia in bestia – raggiungevano invece livelli parossistici nella prima edizione, per molti versi un vero e proprio prosimetro data la presenza, poi espunta, di numerosi innesti poetici sia di mano dell’autore che frutto di citazioni. D’altronde non poche indicazioni di interesse critico si ricaverebbero da un accurato confronto filologico tra le due edizioni del romanzo, senza trascurare le intermedie redazioni manoscritte e dattiloscritte, testimonianza di una evoluzione esistenziale oltre che letteraria dell’autore.
Se è vero, come taluni sostengono, che ogni scrittore nella sua vita scrive un solo libro, il primo, che poi più o meno consciamente e sistematicamente sottopone ad aggiornamento e variatio costanti nel prosieguo della sua produzione letteraria, con l’aggiunta di tutti gli altri libri a venire, allora si può affermare che la cifra stilistico-tematica dell’opera di Michele Mari sta già tutta nel suo romanzo d’esordio, e, come sempre accade quando ci si trova al cospetto di un grande libro, la chiosa, per quanto accurata, non esaurisce mai il testo. È la prerogativa dei capolavori: proprio in questa loro inesauribilità, nell’incessante lavorìo esegetico cui impegnano e costringono lettori e critici risiede parte del loro fascino imperituro: come «gli Olimpici» dei pavesiani Dialoghi con Leucò «loro durano in un mondo che passa».
Tra le innumerevoli ascendenze letterarie di Di bestia in bestia le più evidenti sono senza dubbio quelle riconducibili a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson, al Gordon Pym di Poe e al Frankenstein di Mary Shelley, dai quali ricava rispettivamente un certo modo di trattare la tematica del doppio, l’allegoria funerea implicita nel niveo biancore del paesaggio13 e una scena – quella del rapimento e dell’uccisione di Teresa e Carlotta – che ricalca quella analoga del piccolo William in Frankenstein.
Dunque Mari omaggia alla propria maniera il romanzo gotico ottocentesco, omaggio che non mancherà di essere reiterato in molte opere successive secondo una variatio che attraversa e riscrive felicemente generi e tradizioni letterarie. In Di bestia in bestia giova alla narrazione goticheggiante anche l’indeterminatezza cronologica e la solitudine delle lande desolate in cui è ambientata la vicenda. Ulteriore giovamento gliene deriva dall’uso – non solo parodico, dunque – di una lingua che viene percepita come sincronica pur nella diacronia di forme e costrutti (altra costante marista). E non ultimo il ricorso ad una narrazione nella narrazione, stratagemma affabulatorio usato non poche volte nei classici del romanzo gotico. Sempre per restare in tema di fonti e suggestioni letterarie più o meno esplicite non è peregrino ricordare che l’astuzia dello scambio dei gemelli nel talamo matrimoniale è stata già usata da Tommaso Landolfi, autore caro a Mari, in Encarte uno dei racconti della raccolta Le labrene. Antecedente di cui Mari può essersi ricordato e servito, quando non si sia trattato di una reminescenza inconscia. E non bisogna dimenticare neppure le tante occorrenze di sintagmi e versi e calchi foscoliani e leopardiani sapientemente dissimulati nel testo.
Un cronotopo nel cronotopo risulta essere la biblioteca, cuore del castello di Osmoc e centro nevralgico di tutte le case che popolano la narrativa di Michele Mari, fatta eccezione per quella del racconto eponimo di Fantasmagonia. La sterminata biblioteca di Osmoc è un microcosmo perfettamente ordinato, l’estremo baluardo di civiltà e cultura in un luogo dominato dalla natura selvaggia di uomini e cose e dall’infuriare degli elementi:
Osmoc parlava, parlava, ma oltre che con quella del vento la sua voce si fondeva per me con lo spettacolo, ovunque mi volgessi, di quella biblioteca classicamente ordinata nelle purissime linee di una geometria rigorosa, dove, come per miracolo, riviveva la bellezza di un tempio elleno. E ciò che piú dava fascino ad una tale visione era il suo impressionante contrasto con quanto s’intravedeva all’esterno, dove il vento giocava rapinoso con la neve avvolgendola in rote turbinanti a mezz’aria, e disperdendola attorno in un pulvisco impazzito la catturava di nuovo per scagliarla con furore inesausto nell’infinità varietà dell’informe14
e ancora:
la geometria della biblioteca era infatti come una certezza di verità e di giustizia, e persino in quel triste concorso di eventi ci metteva nella condizione fidente di chi ascolti tranquillo una conferenza erudita. Come un pentacolo magico le scaffalature definivano uno spazio sottratto al disordine della vita primaria: perché lí tutto era solo come parola, e forma, e saggezza spiegata.15
La biblioteca è il regno di Osmoc, un piccolo mondo che si regge e può esistere solo in virtù del solipsistico isolamento dal grande mondo messo in atto dal suo proprietario. Il destino di quei libri è l’unica affannosa preoccupazione di Osmoc.
Vi è un passo in particolare in cui emerge nettissima la dicotomia tra il casto apollineo microcosmo libresco creato da Osmoc e la potenza dionisiaca di una natura dipinta come forza impudica e lussuriosa pronta a insidiare la purezza quasi virginale di quella piccola enclave di carta:
«I miei libri», disse con un filo di voce quand’ebbe finito di passare in rassegna gli scaffali ricarchi. «Sono tutto quello che ho… Promettetemi che quando sarete tornati in patria cercherete di dimenticare, promettetemi che cercherete di ricordare di me solo questa stanza e questi libri… E d’un’altra cosa vi prego, nel caso dovesse capitare… capitarmi qualcosa, abbiate il cuore di prendervi cura di loro… Io non ho un fratello, ne ho cinquantamila, in ventiquattresimo e in-folio… Occupatevene, conservateli uniti, evitate che si disperdano, è il mio ultimo voto… Sí, occupatevene, e temete quella neve» (additò bruscamente la vetrata ormai buia: dietro, la folle sardana s’intuiva soltanto). «Essa è avida e vorace, ed attenta al mio bene… Rimembratevi del miserevol destino delle piramidi incaiche e delli templi aztechi suntuosi, usurpati da Natura invidiosa ne la specie di una verdura indecente smodata mostruosa… Pensate a quei rigori stravolti dal viluppo della giungla espansiva, a quel cosmo insidiato dal prurito del polline e de’ succhi vitali… tentacolari radici che strisciano come mani di libertini sulla geometria delle austere scalee… erezion di turgidetti pistilli a l’ombra de’ colonnati severi… sul casto frontone di trigona esattissima forma il bacio lussuoso del seme-ventosa… l’inconcepibile amplesso di quella regina moecharum la liana con gli sbigottiti architravi, di loro rigidità ahimè troppo fidenti… Accadrà lo stesso con i miei libri… La neve sfonderà le vetrate e invaderà tutto, e si mangerà i miei volumi… Allora sui monti ghiacciati l’attonito pastore udrà fremere il sistro… Allora si vedranno i lupi scendere perplessi alle valli… Allora l’antichissimo riso delle Madri avvolgerà ogni cosa nella Notte originale…16
Da alcuni indizi presenti nel testo, inoltre, si può desumere che la biblioteca – centro, come si è visto, del mondo di Osmoc – sorge esattamente al di sopra della cantina, che è invece il centro del mondo sotterraneo e cunicolare di Osac. I numerosi passaggi segreti di cui è dotato il castello, infatti, si dipartono tutti dalla dimora ctonia di Osac e a quella ognuno riconduce «quasi che nell’ascoso disegno del Teutone arguto la cantina si fosse dell’intero dificio strategico cuore, e pulmo, e bellíco…».17 D’altra parte quando Osac fa finalmente irruzione nella biblioteca dove tutti sono riuniti fuoriesce proprio da un cunicolo posto sotto la scrivania di Osmoc: lo scontro dicotomico tra i due fratelli e tra tutto ciò che le loro contrapposte personalità simboleggiano procede pertanto secondo un parallelismo perfetto, in cui nulla sembra essere lasciato al caso, nemmeno la planimetria dell’antico castello.
Al lettore attento non può sfuggire la parentela che lega l’erudito Osmoc al bibliomane Peter Kien di Auto da fé di Elias Canetti: entrambi sono uomini profondamente impastati di libri: tanti ne hanno negli scaffali della propria biblioteca, altrettanti ne recano impressi nella loro testa. Entrambi concepiscono la vita e il mondo sulla base di categorie libresche e per questo ambedue risultano inetti al mondo e alla vita, esseri umbratili e solitari che hanno scelto l’isolamento dai propri simili per essere gli ultimi sacerdoti di un culto fatto di carta e lingue estinte. Entrambi hanno fatto della bibliolatria il senso della loro esistenza e delle sale stracolme di libri gli unici luoghi abitabili, le loro dimore elettive. È scontato immaginare che due vite tanto intrinsecamente e oltranzisticamente connaturate al locus e all’idea della biblioteca non possano compiere il loro destino che in una maniera ad essa indissolubilmente legata. E infatti Kien perirà nell’incendio della sua biblioteca, mentre Osmoc troverà in un’intercapedine ricavata tra le scaffalature dei suoi libri l’estremo rifugio prima di esserne tratto fuori dal furiante fratello e con questi scomparire per sempre tra i ghiacci. Di Osmoc almeno i libri si salveranno, suo lascito estremo e postremo ricordo:
l’importante è che restino tutti uniti, ricordatevelo sempre, una biblioteca è un’unità organica viva, la sua fisionomia è la fisionomia del suo proprietario, e io… io nemmen lascio opere in cui sopravvivere, non lascio affetti, e la mia polve lascio alla pruina di deserta neve ove né donna preghi, né passeggier solingo…18
Osmoc, dunque, muore. E dopo di lui anche Osac. La loro scomparsa lascia irrisolte una serie di domande destinate a restare per sempre senza risposta: la neve che tormenta e avvolge quelle lande desolate serberà perpetuamente il segreto di quelle morti, insieme al mistero delle arcane, antichissime creature che forse abitano quei luoghi primordiali.
A salvarsi dalla catastrofe dopo esserne stati muti testimoni sono proprio i libri: l’immensa biblioteca di Osmoc verrà traslata in Europa, i cinquantamila volumi sottratti al pericolo della dispersione da uno degli scienziati sopravvissuti alla disavventura tra i ghiacci, il quale nel riordino e nella cura di quel patrimonio sterminato troverà il senso della propria esistenza:
Volume a volume, costa a costa, frontespizio a frontespizio restauro quella biblioteca preziosa come restaurassi me stesso, rinnovo la magica unità originaria, dal disordine estraggo l’ordine come un minatore paziente…19
Da ultimo, quindi, estintasi la contrapposizione ferale tra i due fratelli, una superiore sintesi è finalmente possibile, e si esplica esattamente nell’atto di riunificare e riordinare la biblioteca di Osmoc. Alla catastrofe, letterariamente intesa come parte della tragedia classica nella quale avviene lo scioglimento dell’intreccio, segue la catarsi, secondo l’accezione che si ricava dall’estetica aristotelica e che vede in essa la purificazione e il rasserenamento delle passioni conseguito appunto attraverso la tragedia.
«È questa una storia di mostri. Procul inde, chi non ne sostiene le orribili forme», ammonisce un’avvertenza posta in esergo al romanzo. Ma di quali mostri narra davvero Michele Mari in questo romanzo (come del resto in tutta la sua narrativa)? Cosa si nasconde dietro la sua teratologia letteraria e a tratti fantastica? Se osservata da una certa angolazione quella tanto cara allo scrittore è sostanzialmente una teratologia dell’animo umano: il vero mostro è l’uomo con la sua ineluttabile natura ossimorica, le sue vertiginose contraddizioni, le sue antitesi insanabili. Ecco perché un’inverosimile favola gotica può essere presentata come una «storia vera» e un romanzo frutto dell’estro fantasmagorico di una mente imbevuta di tradizione letteraria venir definito come il libro della propria vita. Ecco perché l’autore non si stanca di ripetere che la letteratura non salva, la scrittura non medica le ferite e non esorcizza i traumi della psiche, ma al contrario avvelena e intossica, ecco perché infine Mari predilige le letture inquietanti e spaventose: perché se non si può sfuggire ai propri mostri non resta che l’atteggiamento titanico di guardarli dritti in faccia.
1 Lo ha fatto notare, tra gli altri, Stefano Lazzarin nel suo saggio intitolato Fantasmi antichi e moderni. Tecnologia e perturbante in Buzzati e nella letteratura fantastica otto-novecentesca, Fabrizio Serra editore, p. 100; ma basterebbe citare in proposito soltanto il fondamentale R. Ceserani, Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna, Bollati Boringhieri, Torino, 2002.
2 M. Mari, I demoni e la pasta sfoglia, Cavallo di ferro, Roma, 2010, p. 17.
3 Ibidem, p. 19.
4 M. Mari, Di bestia in bestia, Einaudi, Torino, 2013, p. 221.
5 Ibidem, p. 70.
6 Ibidem, p. 90.
7 Ibidem, p. 109.
8 Ibidem, pp. 120-122.
9 W. Nardon, Il beneficio dell’influenza. Conversazione con Michele Mari, www.leparoleelecose.it.
10 M. Mari, Rondini sul filo, Mondadori, Milano, 1999, pp. 167-168.
11 R. Ceserani, Guida allo studio della letteratura, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 552-553.
12 M. Mari, Di bestia in bestia, cit., p. 14.
13 Ibidem, p. 31 : «C’era qualcosa di inquietante in quella neve matrice di buio, matrice d’altro che il bianco…». E in I demoni e la pasta sfoglia, cit., p. 67, Mari scrive a proposito del Gordon Pym: «Il bianco conclusivo, rappresentando l’assenza o l’annullamento di ogni colore, insegna che vivendo non si impara, non si costruisce, non si cresce; quel bianco assoluto (“il bianco perfetto della neve”) è la negazione beffarda della storia, della cultura, dell’umano».
14 Ibidem, p. 25.
15 Ibidem, p. 94.
16 Ibidem, p. 129.
17 Ibidem, p. 166.
18 Ibidem, p. 200. È evidente, nell’ultima parte della citazione, il calco dei versi 46-48 dei Sepolcri di Ugo Foscolo: «…ma la sua polve/ lascia alle ortiche di deserta gleba/ ove né donna innamorata preghi,/ né passeggier solingo…».
19 Ibidem, p. 216.