Abbiamo chiesto ad una nostra giovanissima collaboratrice di scrivere in ricordo di Rutger Hauer sul suo film più simbolico.
Ma Roy Batty sognava pecore elettriche?
di Lorena Gullone 29-07-2019
“Anche tu, mio creatore, detesti e disprezzi me, tua creatura, alla quale sei legato da un nodo che si può sciogliere solo con l’annientamento di uno dei due. Vuoi uccidermi. Come puoi giocare così con la vita?”
(Mary Shelley, Frankenstein)
Nel 2019, anno di ambientazione di Blade Runner, muore Rutger Hauer, l’attore olandese, che rimarrà impresso per sempre nell’immaginario collettivo per la figura del replicante Roy Batty. Ispirato al romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheeps?, la pellicola di Ridley Scott se ne distanzia in molti punti assumendo i tratti di un noir intimo e profondo nel quale è evidente – nell’intento di definire il concetto di umanità – il dissidio tra organico e inorganico. Scott ha saputo cogliere il taglio malinconico e cupo del libro dando allo spettatore l’idea di una tetra megalopoli senza passato e identità, quasi cristallizzata in una dimensione senza tempo, caotica ma al contempo governata dalla solitudine di una folla che agisce quasi meccanicamente, incurante di ciò che accade intorno. Eppure, nonostante i viaggi interstellari e le realtà retro-futuristiche, ciò che rende il film impermeabile allo scorrere del tempo è l’introspezione dell’animo umano, lo sforzo incessante di comprendere le dinamiche decisionali, non solo degli uomini, ma soprattutto di coloro che si rivelano “più umani dell’umano”. Le contraddizioni morali di cui sono protagonisti tanto i replicanti quanto gli uomini non permettono di prendere una posizione, di capire verso quale parte propendere.
La storia è arcinota. All’interno di una Los Angeles distopica, perennemente piovosa e senza sole, dominata da una tecnologia che ha (s)travolto la vita umana, si aggira il cacciatore di taglie Rick Deckard (Harrison Ford) incaricato di “ritirare” alcuni replicanti che, guidati da Roy Batty, sono fuggiti dalle colonie extra-mondo alla ricerca di una vita più lunga. La chiave di tutto è l’occhio, presente sin dalle primissime scene. Solo attraverso gli occhi si riesce a distinguere un “non umano” da un “umano”. Lo consente il test di riconoscimento Voight-Kampff, che sfrutta proprio i tempi di reazione e la dilatazione oculari. L’occhio è il simbolo dell’intera pellicola e sottolinea la (in)capacità di ognuno di cogliere il reale, anche ciò che (non) è immediatamente visibile. Questi esseri artificiali, costruiti in laboratorio, dunque, biologicamente identici agli umani, ideati e progettati dalla Tyrell Corporation per svolgere le più disparate mansioni, devono avere un limite massimo di 4 anni di longevità per non acquisire autocoscienza e provare emozioni. I replicanti si mostrano, al contrario, empatici e talvolta anche compassionevoli. Lo dimostra la scena più famosa del film: dopo un’estenuante lotta per vendicare la morte del suo gruppo, Roy Batty, nonostante abbia il cacciatore in pugno, decide di risparmiare Deckard e passa con lui gli ultimi istanti della propria esistenza.
Giunto al termine del suo percorso, l’androide sceglie la vita, non la sua, ma quella dell’altro, comprendendo a pieno il valore dell’esistenza. Dopo il celebre e intenso monologo “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi…” Roy Batty se ne va nel modo “più umano” possibile, guardando con malinconia il breve passato e affrontando con consapevolezza la morte. Il suo vissuto si dissolve insieme a lui, come lacrime lavate dalla pioggia, in un mondo dove la storia sembra non avere posto e tutto è risucchiato nel vortice dell’oblio. Blade runner invita lo spettatore a riflettere, soprattutto, sul significato di umanità. Nel corso del lungometraggio sembra svanire ogni distanza tra androidi e uomini, tra preda e predatori tanto che Deckard decide di scappare con Rachael, di cui si è invaghito, recente creatura di Tyrell, dotata di innesti, ricordi artificiali di un passato mai vissuto. Tipico tema dickiano. Proprio nella scena finale si rafforza il dubbio che lo stesso cacciatore di replicanti sia frutto dell’avanzata ingegneria genetica: un origami che il cacciatore trova di fronte alla porta di casa gli ricorda un sogno fatto in precedenza. Sogno o innesto di ricordi? L’ambiguità sulla natura del protagonista marca ulteriormente l’incapacità di scindere il creatore dalla creatura, in una prospettiva dove la tecnologia incombe sull’uomo e si sostituisce ad esso.