Un asceta della probità. ‘Misantropo’ di Molière, con Giulio Scarpati e Valeria Solarino, al Teatro Maggiore di Verbania
@ Amedeo Ansaldi (21-11-2019)
“Per il valore degli uomini si può dire come per i diamanti, i quali, fino a una certa dimensione, purezza, perfezione, hanno un prezzo fisso e indicato, ma che, oltrepassati questi limiti, diventano inestimabili, e non trovano acquirenti.”
(Nicolas de Chamfort)
Verbania – Nel Misantropo, complessa ed esemplare commedia, il genio di Molière assurge al suo indiscusso apice; in essa si armonizzano gli spunti crudelmente comici – che non mancano – con una sostanza più amara. Come tutti i capolavori, da Eschilo a Kafka, anche Il misantropo è stato sottoposto nei secoli alle più disparate interpretazioni e non ha mancato di sollevare innumerevoli interrogativi: tutti, in realtà, riduttivi e fuorvianti. Ad es.: chi è davvero Alceste: un moralista, un disadattato, un inetto, un ribelle, un tiranno, un idealista…? A distanza di quasi quattrocento anni resta per fortuna – pur nella puntualità e nel nitore degli straordinari dialoghi, serrati e incalzanti – un’opera ‘ambigua’ e inafferrabile come lo è, da sempre, la vita degli uomini su questa terra.
Il protagonista, appunto ‘il misantropo’ – ‘l’atrabiliare innamorato’ del sottotitolo – è quello che si potrebbe definire un asceta della probità, irriducibile nella difesa a oltranza dei propri principî adamantini, che nulla può scalfire; nemico di ogni facile accomodamento; incrollabilmente onesto, di un’onestà forse screziata di venature gianseniste (un dettaglio che oggi non siamo più in grado di cogliere); fermo censore dei cattivi costumi; seguace del culto della verità a ogni costo; insofferente di maldicenze, pettegolezzi e insomma di tutte quelle vane chiacchiere che innervano la società ai cui margini si è ridotto a vivere, quasi novello Don Chisciotte (per rimanere nel ‘600). Alceste è portatore di valori austeri in un mondo irrimediabilmente adulterato, nel quale prevalgono incontrastati l’apparenza e il rispetto per le sue manifestazioni. La dirittura morale diventa, in lui, nel quadro di un ambiente così ostile, una passione divorante. Alceste esige da chi gli sta intorno sincerità assoluta; pretende che anche nelle occasioni pubbliche ciascuno mostri il fondo del proprio animo senza corrive reticenze né infingimenti di sorta – il che non è, come possiamo constatare ogni giorno, fenomeno frequente, e forse neppure auspicabile. A causa della connaturata doppiezza che questo modello di manicheismo le associa, l’intera umanità gli è a tal segno odiosa che proverebbe repulsione ad essere giudicato saggio anche da uno solo dei suoi rappresentanti. Ma c’è di più, Alceste trova un piacere sottile, addirittura squisito, nel perdere in tribunale una – non meglio precisata – causa dove la ragione è palesemente dalla sua parte: una sconfitta che riconfermandogli l’indegnità della specie umana cui non sa capacitarsi di appartenere, gli procura un gran senso di soddisfazione (che oggi definiremmo masochistica). La disfatta giudiziaria è conseguenza del suo sdegnoso rifiuto ad abbassarsi a intrallazzi, richieste discrete di spintarelle e ‘buone parole’, di raccomandarsi insomma ad altro, che non sia il senso di giustizia degli uomini, ch’egli per primo sa periclitante. Alceste ostenta modi ruvidi, si astiene sistematicamente dalle chiacchiere futili e insulse che costituiscono il sottofondo della vita di società, deplora la profanazione salottiera delle parole, soprattutto inorridisce che termini come ‘amicizia, ‘verità’, ‘giustizia’ siano pronunciati con colpevole leggerezza. Così, vediamo spesso Scarpati confinarsi, sdegnoso e corrucciato, in un angolo della scena, e a ragione, visto che “Quelli che non san trarre partito dagli altri non si lasciano accostare facilmente” (Vauvenargues). Egli si è avventurato, nei suoi abiti dimessi e con il suo spirito dogmatico, in mezzo agli uomini, armato di valori fin troppo alti, e ora pretende di essere ricambiato dagli altri con la stessa rara moneta. Ma, come sosterrà amaramente Chamfort: “Qualità troppo superiori rendono un uomo meno adatto alla società. Non si va al mercato portando lingotti d’oro, bensì con argento o moneta spicciola”.
Attraverso di lui, la commedia – ed è qui uno dei suoi crudeli punti di forza – mostra quanto possa riuscire ridicola, goffa, fuori luogo nel mondo in cui viviamo l’esibizione di una rigida onestà.
Pur nella sua eccezionalità, Alceste è figura paradigmatica, al pari di Edipo, Amleto, Joseph K.:“Di tanto in tanto appaiono sulla superficie della terra uomini rari, eccellenti, che brillano per le loro virtù, le cui eminenti qualità rilucono di uno splendore prodigioso. Simili a quelle stelle straordinarie di cui si ignora il principio e di cui si sa ancor meno ciò che divengano dopo essere scomparse, essi non hanno né antenati né discendenti; compongono da soli tutta la loro razza”. Forse questo ‘carattere’ del coevo La Bruyère può suggerire la misura della sua disperata solitudine.
D’altra parte, la complessità del personaggio ammette che le sue parole e il suo comportamento denuncino tratti di inattesa, insospettata meschinità, ad es. quando, per vendicare il presunto tradimento di Selimene, offre con leggerezza (non meno censurabile!) il suo cuore alla ben più degna Eliante, semplice e virtuosa. C’è in questo autistico declassare gli altri, tutti gli altri, a mero strumento di vendetta – quasi non esistessero, se non per porsi al servizio della sua inflessibile probità – qualcosa di tralignante e, finalmente, di pericoloso (quasi una prefigurazione del principe del Terrore Maximilien de Robespierre, l’Incorruttibile per antonomasia).
Giulio Scarpati rinnova qui con Valeria Solarino il fortunato sodalizio artistico di Una giornata particolare, e dà corpo, da quell’attore consumato che è, alle contraddizioni insanabili dell’animo del protagonista. La sua misurata interpretazione – senza eccessi di teatralità -di un personaggio eccessivo in ogni circostanza, attorno ai cui acri umori ruota l’intera commedia, riesce a restituirne le contradditorie sfaccettature e a suggerirne efficacemente il rovello interiore, mentre gli abiti trasandati e modesti, quasi da scapigliato bohémien (i bei costumi sono di Marianna Carbone), attestano anche all’occhio dello spettatore il ripudio intransigente di qualsiasi concessione all’esteriorità.
Alla figura di Alceste si contrappone, nell’ambito di una schermaglia dialettica che riassume in termini non didascalici il ‘significato’ della commedia, quella del più conciliante amico Filinte, un eccellente e calibrato Blas Roca Rey, che si disimpegna molto bene fra l’inclinazione a un ragionevole, ma non corrivo, compromesso e la sincera e disinteressata amicizia per Alceste. A detta di Filinte anche un’eccessiva saggezza, quale quella dell’amico, può risultare riprovevole, laddove un po’ di diplomazia renderebbe i rapporti fra gli uomini almeno tollerabili: non è forse ingeneroso pretendere da poveri, limitati mortali una perfezione estranea alla loro natura? In realtà Filinte non possiede quelle inclinazioni opportunistiche che Alceste a torto, e reiteratamente, gli rimprovera; sa riconoscere, forse meglio dello stesso Alceste, la virtù (per es. in Eliante) e dispensargli consigli accorti, accolti peraltro sempre sfavorevolmente, con ingiurie ruvide che non fanno però vacillare la saldezza della sua amicizia. Filinte è insomma viva e trasparente incarnazione di quella duttilità e comprensione per gli innati difetti umani che latita drammaticamente nel protagonista.
Senonché, nella cornice dialettica ‘ferrea dirittura morale-realistica flessibilità diplomatica’ introdotta nel primo atto irrompe, a sconvolgerla, l’amore, forza elementare, pre-etica. Nel secondo atto entra in scena, come sappiamo, l’incantevole Selimene (qui, una fulgida, smagliante, bravissima Valeria Solarino), compiuta incarnazione della pettegola e brillante mondanità secentesca; spigliata, salottiera, civettuola, amante di quella briosa vita di società della quale rispetta tutti i formalismi e le convenzioni; perennemente attorniata da uno stuolo di spasimanti che ,mai sazia di esserne ammirata, si guarda bene dallo scoraggiare. Selimene appartiene in tutto e per tutto a un mondo fra i cui stucchevoli e melensi riti si muove a proprio agio, tanto da diventarne la dominatrice incontrastata, non senza la maligna, squisita soddisfazione di essere invidiata per il suo successo dalle altre donne, e segnatamente da Arsinoè (una brava Anna Ferraioli Ravel), personaggio di un’indole, se possibile, ancor più meschina, denunciata dalle ignobili e velenose delazioni, ipocritamente dissimulate sotto l’aspetto di ‘amichevoli’ avvertimenti in una scena fra le più acute e divertenti della commedia. Del resto, come avrebbe scritto Vauvenargues,“L’invidia non può nascondersi. Essa accusa e giudica senza prove; ingrossa ogni difetto; dà nomi terribili alle più piccole colpe; ha un linguaggio pieno di fiele, d’esagerazione e di ingiuria. Essa si accanisce, caparbia e furiosa, contro il merito che più splende. È cieca, irosa, dissennata, brutale”. Apprendiamo, inoltre, che Arsinoè ha qualche anno in più di Selimene, e qui soccorre un altro illustre contemporaneo di Molière, il duca di La Rochefoucauld, che diceva che, in fondo,“I vecchi amano tanto dare buoni consigli per consolarsi di non poter più dare il cattivo esempio”.
Beninteso, l’amore non rende Alceste cieco di fronte ai palesi difetti dell’amata; al contrario, lo fa più dolorosamente sensibile a questi. Per vincere l’amore per Selimene, che lo pone in contraddizione con tutti i suoi principi – per non dire con la sua stessa natura – Alceste dovrà sostenere una sfibrante lotta con il suo cuore ricalcitrante, indisponibile a piegarsi a qualsiasi logica superiore o principio morale.
La deliziosa frivolezza di Selimene e l’irriducibile rettitudine di Alceste, pur entrando continuamente in rotta di collisione, sulla scena si mantengono in un accorto e sagace equilibrio, per quanto sembri sempre sul punto di rompersi: l’eterno tema degli opposti che si attraggono, qui non ancora abusato.
Selimene è divertita, ma alla lunga anche irritata e annoiata, dalle insospettabili debolezze dell’innamorato; per restare nella stessa temperie culturale, “La gelosia è il peggiore dei mali, e quello che fa meno compassione a chi ne è causa”, come scriveva sempre il La Rochefoucauld.
Alceste soffre nelle proprie carni le sue gravi, inopinate contraddizioni, ben lungi dall’essere solo cerebrali; non deve meravigliare perciò se tanto spesso e facilmente la simpatia dello spettatore si indirizzi a lui.
Quanto a Selimene, non sa lei stessa se ami davvero Alceste; d’altronde, se lo chiede? Smascherati pubblicamente i suoi poveri intrighi, ella riconosce infine le proprie colpe, ma sa anche che la condanna di quel mondo che tanto le assomiglia e a cui è perfettamente omogenea sarà di durata effimera; e ad Alceste e alla sua estrema proposta di vivere il resto della loro vita in una solitudine a due, in una sorta di desolante deserto, oppone la difesa combattiva della sua – pur dubbia, pur discutibile – libertà.
Il misantropo è anche, nei personaggi di contorno, una splendida galleria di tipi umani: l’aspirante poeta vanaglorioso che vorrebbe che le volte dei templi risuonassero dei suoi elogi, i marchesini vanesi e incipriati, la zitella bacchettona ipocrita. Suggestiva la trovata scenica del grande ritratto e, alternativamente, dell’enorme specchio che campeggiano sullo sfondo, quest’ultimo replicando puntualmente i gesti degli attori – a simboleggiare il narcisismo imperante nell’alta società.
Ma soprattutto emerge, nell’economia della commedia e a tutto vantaggio della riuscita artistica, l’assenza di quello smaccato lieto fine che – sicuramente imposto dalla potentissima ‘cabbala dei bigotti’, come Michail Bulgakov la chiamava – affligge altre opere, pur grandi, di Molière – l’altra felice eccezione essendo la comédie-ballet George Dandin ou le Mari confondu. La visione del mondo che ne scaturisce è quanto mai amara; ma, come si conviene alla grande arte, di un’amarezza che non giudica, e che si coniuga anzi con la consueta, miracolosa leggerezza di tono a cui sono avvezzi i suoi lettori.
Il misantropo resta il più profondo e complesso fra i capolavori di Molière. I personaggi che si muovono sulla scena sono uomini – e donne – figli della propria epoca, eppure tipi universali ed eterni; simboli ambulanti, e nello stesso tempo persone vive, uniche, irripetibili, ed è appunto su questo piano che la rappresentazione deve affidarsi alla bravura, alla sensibilità, all’esperienza degli interpreti, che qui la sostengono da par loro.
I cambi di scena fra un atto e l’altro sono scanditi da calzanti musiche settecentesche (salvo errori, da Bach, Vivaldi, Haendel, Mozart, ecc.) modernizzate entro il lecito.
Meno convincenti, forse, alcune pleonastiche sottolineature, intese a evidenziare l’attualità de Il misantropo, come se l’ambigua profondità del testo non bastasse a consacrarne l’immortalità: per es., inflessioni dialettali sulle labbra di personaggi che si vorrebbero universali, sì coevi del Re Sole, ma in fondo appartenenti a ogni tempo e a ogni luogo; gli occhialini scuri da rockettari e certe erre mosce un po’ troppo ostentate e caricaturali dei giovani e fatui marchesini. Del resto, non si tratta che di dettagli; rilievi forse ingenerosi.
L’ultima battuta (che nel testo originale sarebbe indirizzata ad Eliante: “Andiamo, signora, a far di tutto per impedire che metta in pratica quel che ha in animo di fare”, cioè ritirarsi dal mondo) in questa edizione non viene pronunciata. La frase lascerebbe aperto un estremo spiraglio, il filtro di una luce pur avara che riporterebbe la commedia proprio là dove era incominciata, allo scontro dialettico iniziale. Qui si preferisce chiudere con l’immagine solenne di un Alceste che, conscio del rischio di perdersi nel groviglio delle proprie contraddizioni, abbandona il mondo, rinserrato nel proprio orgoglioso riserbo. La regia ha operato una scelta drastica e coerente; una piccola grande infedeltà – un’espunzione peraltro non peregrina – che merita di essere condivisa e probabilmente aderisce meglio allo spirito di questa commedia drammatica, che si conclude con il protagonista avviato verso il deserto dove ha deciso di relegarsi per il resto della vita.
Giulio Scarpati
Valeria Solarino
MISANTROPO
di Molière
traduzione di Cesare Garboli
e con Blas Roca Rey, Anna Ferraioli, Matteo Quinzi, Federica Zacchia, Mauro Lamanna, Matteo Cecchi
scena Luigi Ferrigno
costumi Marianna Carbone
luci Raffaele Perin
musiche Marco Schiavoni
regia Nora Venturini
produzione Gli Ipocriti – Melina Balsamo