Lisbeth e la sua Ombra. Riflessioni su ‘Quello che non uccide’ di Fede Álvarez con Claire Foy
di Lucia Tempestini 03-11-2018
Il passato è come un buco nero, se ti avvicini troppo ti risucchia e tu sparisci, dice il piccolo August giocando a scacchi con Lisbeth Salander. E’ un genio matematico precoce, avvolto in un silenzio spaventato ma munito di un istinto di sopravvivenza quasi animale, conteso dai servizi segreti di due stati (USA, Svezia) e da un’organizzazione criminale russa, alquanto high-tech, di psicopatici attratti dal potere fine a se stesso. Punto di regresso cuspidale della banda è Camilla Salander, rivestita di quel colore rosso che in natura segnala un pericolo spesso letale e in alchimia, se troppo acceso come in questo caso, identifica uno squilibrio emotivo. Proprio la sorella di Lisbeth, abusata per tutta la vita da un padre pedofilo e sadico eppure sua complice, rappresenta per la giovane hacker il passato da cui fuggire per non esserne divorata e nello stesso tempo l’Ombra con cui fare i conti ogni giorno, la compagna oscura e sussurrante che infesta i suoi pensieri e le sue azioni. Di quest’Ombra ossessiva, nel precedente Uomini che odiano le donne di Fincher, era rappresentata da Rooney Mara, con intuizioni geniali e un’economia espressiva davvero rara, la natura ignota, indefinita, archetipica, che diventa condanna a vivere su un buio fondale sabbioso, o all’interno di un corpo opaco nel quale non arriva luce, né arriverà mai.
Partendo da quel corpo celeste che non emette alcuna radiazione a causa dell’intensità del campo gravitazionale, Álvarez e Claire Foy disegnano una Lisbeth molto diversa. In Quello che non uccide l’Ombra è un tormento definito e cosciente, un arrovellarsi moderno e per questo meno emozionante e incisivo. L’humus del possibile si trova nelle cavità recondite dell’Ombra, nel non conosciuto. La rivelazione proveniente dall’esterno, narrativa, esplicativa, e non da un’immersione soggettiva, anche rischiosa, in profondità insondate, in acque abissali, riduce l’apparizione continua eppure sfuggente a un sacco vuoto che ci trasciniamo dietro. E il film a un sontuoso, ansiogeno action movie con sfumature da intrigo internazionale, il cui pregio maggiore è la scelta di situare molte sequenze in ambienti distorti dal turbamento visionario di Lisbeth (la discoteca sotterranea, la casa/caverna, vuota e tecnologica, in costante penombra, i corridoi della casa paterna, che si restringono e si allungano allontanando la luce), o negli edifici in frantumi, dispersi in mezzo ai boschi denudati dall’inverno, che la trasformazione dell’economia da processo produttivo a nebulizzazione in software sempre più avanzati e veloci (il tempo è il fuoco che ci divora) si è lasciata alle spalle come rovine di una civiltà scomparsa. I soffitti a cupola dai vetri rotti da cui gocciola umidità, i pavimenti coperti di detriti e neve, le rampe strette di scale che si avvitano su se stesse con angoli retti fra un pianerottolo e l’altro, suggeriscono, come i migliori racconti di Bradbury, la fine di un ciclo umano.
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