‘Tripolis’: noi e l’altro, il rapporto con lo ksénos fra tensioni e integrazione alla XL edizione di Benevento Città Spettacolo

‘Tripolis’: noi e l’altro, il rapporto con lo ksénos fra tensioni e integrazione alla XL edizione di Benevento Città Spettacolo

di Marco D’Alessio 27-08-2019

BENEVENTO – Il compito in classe sulla colonizzazione in Africa affidato da un severo e rigido professore di storia della filosofia induce Carmelo, studente siciliano, a interrogare sua nonna sugli anni trascorsi a Tripoli, scoperchiando così un vero vaso di Pandora. L’anziana donna, Maria Scalìa, rimanendo seduta e assorta a filare la lana – mentre insieme al filo si dipana e prende forma austera quanto sottile la matassa della trama storica che sta raccontando – immerge suo nipote nella Tripoli degli anni ‘40 durante il periodo della dominazione italiana. Maria, settima di dodici figli, improvvisamente si ritrova con un membro in più nel nucleo familiare: Mal, figlio di una donna della servitù malata di tubercolosi, il cui marito si è affiliato a una cellula di combattenti rivoltosi. La domestica affida perciò suo figlio al padre dell’anziana Narratrice, allora bambina. Il piccolo arabo, accolto con freddezza da Maria e le sue sorelle, non è visto di buon occhio nemmeno dagli operai arabi al servizio della famiglia perché il piccolo trascorre il suo tempo con entrambe le etnie senza mai mostrare preferenze particolari per l’una o per l’altra.

Ormai cresciuto, il giovane Mal decide di arruolarsi nell’esercito rivoltoso seguendo le orme del padre, e causa in questo modo un grave dolore a Maria. La pena della donna è destinata a rimanere inespressa, poiché gli stereotipi di ruolo cui è stata educata per trasformarsi nell’immagine di donna adulta e madre accettata dalle regole sociali le vietano lo sfogo del pianto. Fra le strette pareti di casa, cucendo e riparando le divise dei colleghi del marito, maresciallo dell’arma, si rende conto che gli stemmi acquisiti in battaglia non siano che fioriture malate di drammi fisici e morali provocati a se stessi e agli altri.

All’improvviso, dopo la guerra, gli italiani in Libia iniziano a essere visti in maniera diversa, non più come coloni, ma come invasori, stranieri, usurpatori da scacciare. Incominciano gli attacchi prima contro le figure politiche, poi nei confronti della popolazione. Maria racconta la paura provata quando il suo palazzo è stato invaso e non ha trovato altra via di fuga con i due piccoli figli che il terrazzo in cima all’edificio. Ma nemmeno lì il rifugio le appare sicuro e l’unico aiuto possibile è recarsi dai vicini arabi, freddi da un po’ di tempo nei loro confronti a causa della difficile convivenza e situazione sociopolitica. La donna, ormai senza speranza, aggrappandosi ai bambini, immagine del futuro in pericolo, di fronte alla sua vicina non può far altro che chiedere riparo con forza, perché da madre a sua volta è l’unica che possa capire l’esigenza di mettere al sicuro i figli. Così fra le lacrime della donna, la vicenda drammatica si conclude col discorso in cui Gheddafi, che in quel momento reggeva il regime provvisorio dopo aver deposto il re Idris, sostenne che ci sarebbe stato una nuova svolta con la repubblica araba.

L’opera è un intrigante lavoro documentario e storiografico che traccia all’incirca un cinquantennio delle vicende libiche passando per le dominazioni straniere, la monarchia ripristinata e la repubblica, ma il punto di osservazione e di lettura è singolare, e prende avvio dalle microstorie di una famiglia. La tessitura mnemonica è affidata ai ricordi, alle sensazioni e alle sofferenze e limitazioni imposte a una donna ormai anziana che ha vissuto in quei luoghi gli anni della gioventù, provando sulla sua pelle la parabola discendente dall’integrazione all’emarginazione. Ricorrente nel racconto della Narratrice l’apprendimento della lingua araba per volere del padre, che considerava questo idioma la chiave di lettura e di interpretazione della realtà, in fondo il primo ed essenziale elemento d’integrazione e dialogo tra culture diverse. Nella narrazione della quotidianità suggestivo è lo spazio lasciato agli scambi di rituali e cerimonie alimentari tra le due popolazioni: il cous cous, il rito del tè dai vicini, segno di vicinanza e di fratellanza oltre che di accettazione e volontà di entrare in contatto con entità strane ed estranee.

La storia, tratta da una serie di episodi reali, è magistralmente interpretata da Dario Muratore che ricopre le diverse voci del racconto portandone alla luce le molte e varie sfumature capaci di coinvolgere emotivamente lo spettatore.

 

TRIPOLIS

di e con Dario Muratore