Una derelizione numinosa. “Blue Jasmine” di Woody Allen

Una derelizione numinosa

di Lucia Tempestini

“Blue Jasmine” scritto e diretto da Woody Allen

con Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin

produz. USA, 2013

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Stanno nel gioco di parole acuto e intraducibile “Blue Jasmine” la chiave e la sintesi estrema dell’ultimo film di Woody Allen. La condizione di infelicità (blue) e smarrimento della protagonista Jasmine è analoga a quella che colpisce il seducente, aristocratico gelsomino azzurro (plumbago auricolata) quando viene privato del prediletto terreno siliceo, leggero e ben drenato e del clima mite, ritrovandosi (così sensibile e delicato, nato per le confortevoli serre temperate) a fronteggiare temperature rigide, terreni scarsamente nutritivi e ricoperti di foglie marce, nonché orribili e letali afidi. Sposata con un fascinoso e spietato speculatore finanziario, preferisce glissare elegantemente sull’origine delle loro ricchezze, dedicandosi a coltivare la propria perfezione (estetica, culturale, mondana), nonché a numerose opere di beneficenza.

Sarà lei, in un temporaneo ottenebramento del raziocinio scatenato dai continui tradimenti del marito, a provocarne la rovina economica e l’arresto (cui seguirà il suicidio in carcere per cruenta impiccagione). Solo che l’indagine, una volta avviata, produce il distacco, e il conseguente precipitare di giorno in giorno più rapido e violento, dei materiali (fino a quel momento apparsi così compatti, saldi, inattaccabili) che sostenevano l’esistenza e l’essenza stessa di Jasmine, fino a ridurla a un piccolo impotente sasso “abbandonato all’impeto di rumorosa frana”.

Ormai indigente (benché orgogliosa), depressa, ansiosa, oltraggiata dall’elettroshock, dipendente da massicce dosi di vòdka e xanax, insofferente a lavori umili che la costringono a osservare quotidianamente le vecchie amiche (o ex amiche) da una posizione subalterna, Jasmine decide di trasferirsi da New York a San Francisco, città in cui vive la sorella Ginger, in passato trascurata e tenuta a cortese distanza per via del ceto sociale decisamente inferiore e dei gusti e comportamenti poco consoni alle sofisticate sfumature newyorkesi (cui tuttavia lo speculatore rampante non aveva esitato a far perdere una somma ingente di denaro con la prospettiva di favolosi guadagni).

Ginger nutre sottili, venefici rancori nei confronti della sorella dai geni perfetti e dalla vita privilegiata, che affiorano in superficie assumendo la forma di un acido, petulante farisaismo, cui discendono frasi di meschino buon senso da minus-habens, accuse di squilibrio mentale, tentativi di normalizzazione e ridimensionamento dell’antagonista.

Jasmine mal sopporta il deserto spirituale della sorella, i suoi amanti subumani, i suoi attoniti bambini, il dentista egolatra e lubrico al quale fa da impaziente segretaria per un breve periodo, la casa angusta, stipata di suppellettili nella quale è costretta a vivere. Gli interni, come succede spesso nelle storie di Allen, diventano protagonisti essenziali, rivelatori: la casa vissuta come turris eburnea disconnessa dalla volgarità delle piccole cose, o come gabbia arrugginita, soffocante eppure familiare – disdegnata e amata proprio per questo –, in entrambi i casi contrapposta al mondo, utilizzata come abito, come maschera, come corazza attraente o ripugnante, come specchio, come rappresentazione di un’identità costruita con cura o con casualità apparente – come Caso solo subito, anziché assemblato tassello dopo tassello – eppure assolutamente vera.

Dopo il fallimento della relazione con un uomo bello, facoltoso e animato da velleità politiche (nonché assai fatuo e calcolatore), provocato dal desiderio di vendetta dell’ex marito di Ginger per la truffa subita, l’orizzonte di Jasmine si chiude in modo definitivo. Nella sequenza finale la vediamo, numinosa e derelitta, seduta su una panchina, i capelli bagnati dopo una doccia interrotta, avvitarsi in un soliloquio caotico, continuamente ripreso, mentre una signora dall’espressione ottusa e sospettosa piega il giornale che sta leggendo e con cautela si alza per allontanarsi.

L’asciutto apologo di Woody Allen (un entomologo colmo di pìetas, lucidamente turbato dalla natura umana, così fragile e imperfetta, esposta ai rovesci dell’esistenza), interpretato da una Cate Blanchett di sbalorditiva grandezza, ci racconta, raggiungendo quasi i vertici di “Match point”, molte cose di noi: l’opportunismo, la vulnerabilità, la sostanziale impermeabilità alle ragioni degli altri, l’incapacità di accogliere e mettersi in ascolto di ciò che reputiamo in qualche modo perturbante, strano (estraneo), disadattato, diverso.

https://youtu.be/FER3C394aI8