Si è spenta ieri a 97 anni Doris Day, volto sorridente del maccartismo
di Sergio Cervini 14-05-2019
È probabile che qualcuno ricordi la sequenza di The hours (2002) in cui Laura Brown, moglie infelice e omosessuale repressa, sforna desolata l’ennesima torta sghemba, mentre l’amica commenta con una sfumatura di tedio ‘tutte sanno fare una torta’. Tutte. I poveri dolci storti, malamente inclinati, dalla glassa melanconica e liquefatta che confeziona Laura per coniuge e figlioletto, sono il simbolo del suo male di vivere, della sua asettica prigionia nel quartiere di casette perfette e tutte uguali, nella convenzione perbenista e vuota di senso dei rituali pubblici e privati, nei ‘doveri coniugali’ che le fanno desiderare la morte. E i frammenti di vetro che si spingono sempre più a fondo nella sua mente le torturano il sorriso dall’interno, rendendolo esitante sino a pietrificarlo in un’espressione di dolore da Teatro Nō (e Julianne Moore nel ruolo tocca uno dei vertici della sua arte).
Ecco, Doris Day ha incarnato il prototipo dell’immagine di mogliettina o fidanzatina ideale assemblato dagli strumenti di controllo sociale estremamente attivi negli Stati Uniti degli anni ’50 e ’60. In tempi di caccia alle streghe, di pericolosi comunisti annidati ovunque, di orride devianze da normalizzare per mezzo della psichiatria, di incomprensibili tendenze artistiche e abnormi stili di vita provenienti dal vecchio continente, la determinazione pragmatica del comune cittadino doveva essere affiancata e corroborata da Lei, la sacerdotessa della casalinghitudine, degli impasti perfetti, dei salotti così lindi e ordinati da apparire irreali, della conserva di pomodoro preparata a regola d’arte. Apoteosi trillante dell’asessualità in impeccabile tailleur pastello, compendio dei principi espressi dalla ‘sana’ provincia americana e celebrazione dell’ottimismo a qualunque costo, donna meccanica dall’acconciatura immobile, di un biondo disneyano, Doris Day e i suoi personaggi non del tutto senzienti si sono proposti come baluardo contro la corruzione dei costumi e delle care, vecchie tradizioni, contrapponendosi con garrula e cinguettante veemenza all’altra Hollywood, quella dei dubbi, delle passioni latenti e della trasgressione. Elementi fascinatori incarnati da Lana Turner e dai suoi postini e, ancor più, dal regista Douglas Sirk, i cui complessi, pensosi melodrammi, dopo aver turbato per decenni il pensiero unico, hanno ispirato la raffinatezza calligrafica di un autore geniale come Todd Haynes.
Il buonumore ferreo delle mille donne impersonate da Doris Day, che riluce in certi bagliori inquietanti dello sguardo, qualche decennio dopo si trasformerà nel ghigno satanico della coppia di anziani possidenti in vacanza che attraversa in vari punti quel capolavoro del cinema onirico e allegorico che è Mulholland Drive (2001), meditazione inarrivabile intorno alla finzione e alla crudeltà sulle quali si edifica l’autorappresentazione americana.