Le ferite della donna fantasma. ‘Baciami ancora, sconosciuto’ di Daphne Du Maurier
di Lucia Tempestini 12-08-2018
Quante volte ci è capitato di tenere fra le mani il simulacro di una vita possibile, immaginata e subito svanita? Di guardarlo con i pensieri bloccati, incapaci di andare avanti o indietro. Toglierlo dall’astuccio e osservarlo storditi, come il giovane protagonista di ‘Baciami ancora, sconosciuto’ (*) racconto essenziale, in ogni accezione, scritto da Daphne Du Maurier nel 1952.
Mentre la voce narrante del ragazzo appassionato di motori e meccanica racconta le sue giornate e il breve passato – l’esercito, il lavoro in un’officina fra gli odori di olio e ingranaggi (è uno sporco pulito), i pochi sogni e svaghi -, ci troviamo dentro la vita postbellica dei londinesi: i chioschi dei panini, i cinema, i tram, i pub dove il disprezzo livido nei confronti delle donne si fa tangibile, la necessità e spesso la difficoltà di riprendere un ritmo normale.
Il giovane, che vive in una camera d’affitto presso una coppia di mezz’età premurosa e affabile, decide una sera di vedere un western; e in quella sala popolare il suo destino si incrocia, per lo spazio di una notte e forse per sempre, con quello di una maschera dai capelli ramati, tagliati a caschetto, esile e strana.
La ragazza risponde alla gentilezza del meccanico con frasi laconiche e dense, non del tutto decifrabili. Eppure è colpita dalla sua bontà d’animo, e negli occhi le si accende a momenti l’attenzione distante dei gatti. Si mette dietro di lui, in piedi, nel buio del cinema, e quando il meccanico si volta a guardarla gli rivolge un rimprovero ironico e amichevole.
Da qui prende l’avvio un notturno ipnotico e inquietante, superiore persino a quelli di Woolrich. Per le strade di una Londra piovigginosa, su un autobus che conduce i due in una zona sconosciuta della città, in mezzo ai sentimenti sempre più intensi del giovane, commosso dalla fiducia che gli accorda questa donna fantasma, senza nome né famiglia né indirizzo preciso né passato. Quando finalmente trova il coraggio di baciarla si sente come se avesse trovato il fine ultimo dell’esistenza, una luce sconosciuta che gli scalda il corpo intriso d’acqua.
Scendono al capolinea, nei pressi di un pub e di un cimitero, e nel locale la vista di un ufficiale della RAF fa sprofondare la ragazza in una specie di assenza. Una volta fuori, conduce il meccanico dentro il cimitero e, sotto la pioggia battente si sdraia sul marmo di una tomba. Alle insistenze del giovane che la prega di farsi riaccompagnare a casa risponde calma, tranquillizzandolo e convincendolo a tornare indietro, ma prima di baciarla ancora una volta.
Il giorno seguente il meccanico, in preda a un turbamento romantico che gli fa percepire l’odore di officina come nauseante, acquista una piccola spilla con una pietra a forma di cuore e torna nel cinema sperando di incontrare la ragazza. Al suo posto trova una sostituta che gli parla di una visita della polizia al direttore della sala.
Scoprirà dai giornali della sera che l’ufficiale della RAF incontrato la notte precedente è stato accoltellato a morte, senza motivo apparente, da una ragazza arrestata poco dopo, che il meccanico riconosce dalla foto.
Non c’è vera follia, e neppure reale crudeltà, nel personaggio della sconosciuta, solo ferite immedicabili che l’autrice, amatissima da Hitchcock (pensiamo a ‘Gli uccelli’ o ‘Rebecca’), avvolge in un’indefinitezza misteriosa e addolorata che colpisce, questa sì, come un pugnale.
(*) Nella raccolta ‘Gli uccelli e altri racconti’ ed. Il Saggiatore