LA VOCAZIONE TEATRALE DELL’IMPERATORE
di Lucia Tempestini 23-02-2019
Enrico IV di Luigi Pirandello
adattamento e regia di Carlo Cecchi
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò, Federico Brugnone, Davide Giordano, Dario Iubatti, Matteo Lai, Chiara Mancuso, Remo Stella
produzione Marche Teatro
Al Teatro Argentina di Roma dal 12 al 24 febbraio 2019
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Può darsi che per riconoscere l’assoluta originalità e l’acuminata intelligenza teatrale di questa versione di Enrico IV, si debba risalire alla Lezione sulla Leggerezza di Calvino. Là dove scrive: Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio.
Esattamente questo fa Carlo Cecchi, rintraccia il nucleo del dramma pirandelliano e lo sfronda di ogni concettismo, di ogni gromma anacronistica, di ogni superfluo garbuglio, fino a farne scaturire una luce nera, infinitamente mobile, multiforme e a suo modo lieve. E questa luce la fa riflettere dentro un grande specchio offuscato da fioriture di ossido d’argento, per mostrarne l’essenza di finzione salvifica e iterativa, nella quale ogni ripetizione si presta a infinite varianti.
Il sublime fingitore (interprete che si sovrappone al personaggio) sceglie di mettere in moto il meccanismo mistificatorio fin dall’inizio, dalla caduta avvenuta durante la cavalcata in costume. La pazzia diventa così una scelta, un’assunzione di identità; non quindi la pazzia pensata da Pirandello, indotta da una banale commozione cerebrale, bensì la deflagrazione e il perdurare di una vocazione teatrale alla diversità, che pur cancellando la vita come viene comunemente intesa, ne crea un’altra, in cui i piani temporali si confondono, le identità si moltiplicano e si alterano in un gioco combinatorio esaltante e a tratti esilarante (impagabile la vestizione dell’Abate di Cluny), in cui l’Imperatore vestito col saio del penitente si fa sottilmente beffe di coloro che hanno distillato il veleno della derisione nella sua passata esistenza.
Irride sornione e un po’ stanco anche i quattro giovani vassalli devoti ingaggiati dalla famiglia per simulare struttura e cerimonie di una Corte. In particolare l’ultimo arrivato, Bertoldo, gesticolante enfatico smemorato attor giovane protagonista, uscito da poco da un’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica (e purtroppo preparatosi sull’Enrico sbagliato), sul quale si avventa il disgusto flemmatico e ironico del falso Imperatore. Sia questa figura esagitata e presuntuosa, sia il più esperto dei quattro giovani, sorta di Gran Cerimoniere – che in scorci di straordinario metateatro funge da Custode pedante del Verbo pirandelliano – sono utilizzati da Carlo Cecchi per estroflettere la propria repulsione verso ogni regola pedissequa e pietrificazione poetica.
Ciò che per Cecchi dovrebbe essere il Teatro abbiamo modo di ammirarlo lungo l’intero, avvincente atto unico: una taumaturgia artigianale e colta, capace di ricreare l’atmosfera della foresta di Arden servendosi di strumenti apparentemente semplici, la musica di Noi siam come le lucciole e un ballo struggente fra l’Imperatore e i suoi vassalli.
Anche la scena finale, isolata da una luce cruda, mostra l’impossibilità della tragedia – di ogni tragedia – nella contemporaneità (lo squarcio nel fondale aperto da Amleto non si richiuderà più): il delitto di Enrico è un gesto meravigliosamente guittesco che dà l’abbrivio all’eterno ricominciare della storia. Di tutte le storie.