Leo e la scimmietta Iwarazu. ‘L’età straniera’ di Marina Mander, Marsilio editore
di Agata Motta 22-07-2019
Vivere in una famiglia di larghe vedute non è semplice, pensa il diciassettenne Leo, “perché a forza di guardare più in là, è diventato sempre più difficile guardarsi negli occhi”. Forse quando le vedute erano ristrette e gli orizzonti più limitati era molto più semplice capire da che parte stare, il bene e il male erano poli contrapposti dai confini ben definiti, si poteva entrare in una o nell’altra delle due dimensioni dell’esistere, si dovevano soltanto compiere delle scelte, soprattutto nell’età ibrida, indigesta, spregevole dell’adolescenza, quando la direzione da imboccare non è ben segnalata e tocca giorno per giorno costruire un pezzetto di futuro, un mattoncino dopo l’altro. L’adolescenza è insomma l’età che appare fulgida e incorrotta a posteriori, quando si è costretti ad indossare il tempo trascorso con finta nonchalance.
Marina Mander con il suo L’età straniera, romanzo della dozzina finalista allo Strega pubblicato da Marsilio, entra a gamba tesa nella pelle, nei pensieri e nel linguaggio di un adolescente che vive la propria età con indolenza, ironia, lucida consapevolezza e cupi sensi di colpa, quest’ultimi affioranti nottetempo, nel tribunale speciale di un SuperIo iperattivo che gli attribuisce la colpa di delitti mai commessi e di nefandezze forse accarezzate attraverso desideri inesprimibili. La famiglia di larghe vedute di Leo, in realtà, è una famiglia ferita dal suicidio di un padre dall’intelligenza speciale, dai pensieri tanto densi da essere rumorosi, dal disagio tanto forte da non farsi bastare moglie e figlio, dall’adattamento così limitato alla “pretesa di medietà” imposta dai sani e dai normali da andare incontro all’abbraccio dolce e mortifero del mare senza dubbi ed esitazioni. A Leo resta in eredità la sensazione di non averlo salvato, di essersi riaddormentato proprio mentre il padre moriva, il sonno giusto del bambino sereno contro il sonno eterno dell’uomo che non poteva concepire altre razionalità diverse da quelle numeriche.
Alla madre invece restano addosso un’inesausta voglia di vita e il desiderio a tratti anomalo e quasi patologico di salvare vite spezzate, per lavoro – è un’assistente sociale – e soprattutto per vocazione. Un robusto tassista si è frattanto infilato nel suo letto, non tenta nemmeno di sostituire un padre inarrivabile, gli basta quella donna così com’è, con i suoi entusiasmi e le sue certezze e le sue ampie vedute. Lo sguardo attento e sensibilissimo nei confronti dei reietti e dei disperati diventa però superficiale e sfocato nei confronti del figlio, al quale nemmeno chiede il permesso, quando decide di portarsi a casa Florin, un giovane rumeno costretto a prostituirsi che rifiuta palesemente di imparare l’italiano, forse perché le parole necessarie alla comunicazione gli restituiscono sotto il palato il sapore del tradimento, della disillusione, dell’inutilità di instaurare relazioni che prima o poi potrebbero rivelarsi frustrasti o peggio devastanti. Tanto, se proprio si vuole comprendere chi ci sta accanto, le parole non servono, bastano i gesti che siglano un’intesa, le intuizioni che confermano la disposizione all’ascolto.
Leo e Florin, per volontà materna, dovranno condividere stanza, pasti, tempo libero. Un tentativo di porgere la normalità al giovane rumeno che ovviamente non può giungere da chi dentro quella normalità proprio non si riconosce. L’unico punto di contatto che può esistere tra i due ragazzi è il loro essere entrambi “stranieri” al mondo circostante, quello corrotto e violento di Florin – attraversato però ad intermittenza da amicizie consolidate con altri reietti – e quello stagnante e privo degli stimoli giusti – prodotti solo dalle incessanti letture e dalla quiete delle canne talvolta fumate – di Leo. Per il resto sembrerebbe che i due ragazzi siano isole vaganti su mari lontanissimi, senza ponti o mezzi di trasporto atti a collegare vissuti troppo diversi, ma al momento opportuno scatteranno i meccanismi di solidarietà, la difesa dell’altro verrà reciprocamente esercitata nei modi che ciascuno conosce, con i mezzi di cui ciascuno dispone.
La trama è tutta qui, un vagare tra pensieri, che manifestano una sensibilità esasperata, azioni minimali e parole taciute o “atterrate in un paese sconosciuto e ostile”. L’alessitimia (incapacità di trovare parole per le emozioni) che viene incollata addosso a Leo come etichetta multiuso dai tanti terapeuti presso i quali la madre lo indirizza – in ciò solerte perché l’affidamento del figlio ad esperti le mette a posto la coscienza – si esprime proprio così, con silenzi e parole negate. La galleria degli psico-soloni – tratteggiata con quell’umorismo al vetriolo che riavvicina il lettore a certi stilemi dissacranti di Ipocondria fantastica – è gustosamente pettegola e irriverente: si passa dalla dottoressa “culona” che propina fantasie guidate, silenziosi abbracci, tentativi di rappresentazione dello scenario inconscio ed esortazioni a sane scopate alla terapia di gruppo da iniziare rigorosamente con il grido di battaglia Navajo per vocalizzare l’aggressività e da proseguire magari con un bel pianto liberatorio. E poi ancora, in rapida successione, gli psicodrammi in compagnia di manipoli di invasati che “non vedevano l’ora di buttarsi a terra in posizione fetale e con il pollice in bocca” e la proposta del buon vecchio Prozac, due pastigliette per l’acquisto della felicità a buon mercato. Ma qui la madre torna ad indossare la mise delle occasioni, quella di madre presente e assennata e decreta che di impasticcarsi proprio non si deve neanche parlare e che è meglio farsi due canne se proprio è necessario, rivelandosi in ciò una lucida e ruspante fautrice della famigerata Cannabis terapeutica.
Così la mente fervida di Leo prova a coinvolgere la scimmietta Iwazaru (il nome che ha da subito attribuito a Florin con riferimento al motto giapponese delle scimmie sagge) che gli è stata assegnata in sorte in quello che potrebbe trasformarsi in un piccolo e lucroso business con ruoli ben precisi, l’amministratore e il procacciatore di clienti. Naturalmente il diavolo ci mette la coda, in fondo basta bucare una ruota per impedire ai ragazzi il raggiungimento delle “verdi praterie aeroportuali” sulle quali far fiorire erba e denaro, ma il brutto è che il diavolo non si limita solo alla coda e spesso ci mette pure il resto, magari nelle sembianze che dovrebbero essere più rassicuranti, quelle di un agente di polizia giusto per dirne una, e che invece si rivelano marce e violente.
Gli incontri, le incursioni degli altri personaggi, i piccoli episodi che spezzano il flusso ininterrotto di disagio esistenziale in fondo sono semplici diversivi nella materia compatta del romanzo. I personaggi che ruotano intorno a Leo sono coerentemente percepiti con quella visione limitata, che pretende di assere assoluta, tipica dell’età, per cui degli adulti sono soltanto intuite le debolezze e i dolori, mentre appaiono sovrastanti quelle contraddizioni e quelle leggerezze che sembrano inspiegabili ed ingiustificabili agli occhi del ragazzo che si smarrisce di fronte alla constatazione di non essere il centro del loro mondo, l’unico veramente degno di qualsiasi cura e attenzione. La madre è amata nonostante la sua distrazione lastricata di buoni propositi, il tassista tollerato come l’erba infestante di un giardino che non può essere sradicata, Florin vissuto come rivale nell’affetto materno, come esserino da compatire, come scafato compagno da invidiare. La punizione per i cattivi pensieri tanto si abbatterà comunque nei sogni, in quella parentesi di vita che sembra tanto autenticamente reale da essere considerata parte integrante del proprio vissuto.
“Quando non si sa bene cosa fare della propria vita si spera sempre in un incontro che possa cambiare tutto, se non sei capace di modificare le cose da solo ci dovrà pur essere qualcuno da qualche parte a traghettarti in un’età migliore.” I pensieri di Leo, che affiorano in continuazione con brucianti dubbi e con dolorose constatazioni, sono la colonna sonora del romanzo, la parte più autenticamente felice, assecondata da una scelta stilistica altrettanto giusta.
Il lessico è spericolato ma curatissimo, la sintassi allegramente aggrovigliata ma mai contorta, entrambi gli elementi devono esprimere il mondo di un adolescente svagatamente colto e profondo e lo fanno con espressioni spiazzanti e accostamenti di termini dai quali traspare l’attenzione estrema per un linguaggio da addomesticare al fine di mantenerlo selvaggio (perché anche l’apatia negli adolescenti riesce ad essere tale) e di renderlo funzionale ai contenuti. La scrittura mimetica adottata dalla Mander riproduce con naturalezza quel mondo, come se ne facesse parte integrante, come se fosse il proprio alfabeto. E si tratta di una conferma, perché l’autrice triestina aveva già dato prova di questa capacità camaleontica di indossare altre pelli e di sperimentazione linguistica con La prima vera bugia.
Ma si può concludere una storia di adolescenti senza neanche accennare al sesso? Naturalmente no. A quell’età si vive il sesso come pensiero dominante, che sia quello tragicamente venduto di Florin o quello non ancora sperimentato di Leo, esso è tanto assoluto da porgersi come elemento risolutore. Bastano un semplice riconoscimento verbale (il nome della scimmietta muta Shizaru) e una bocca morbida sulla quale approdare per sciogliere dubbi e tensioni, per dare un ordine accettabile al caos esistenziale dell’età straniera. La psico-culona non aveva tutti i torti…
Marina Mander, L’età straniera, Marsilio editore,
pp.206, € 16.00