La Luna vista dal cinema
di Danilo Amione 30-07-2019
Il Novecento delle immagini si apre (1902) con “Il viaggio nella luna”, di Georges Méliès, punto di partenza del cinema di finzione, e si chiude (1990) con “La voce della luna”, di Federico Fellini, punto di arrivo del cinema in quanto tale. Come dire, la chiusura del cerchio. Un film, quello del regista francese, che lascia intuire le infinite potenzialità formali e sostanziali della settima arte. Un film, quello dell’artista riminese, che dichiara l’impotenza del cinema dinanzi al barbaro dilagare delle immagini televisive. In mezzo, la realtà. Nella fattispecie, l’approdo dell’uomo sulla luna. Per molti, un momento importante della storia dell’umanità. Certamente, un punto di snodo nella comunicazione di massa per immagini. Il primo evento collettivo planetario, il primo esempio di globalizzazione culturale. Il tutto veicolato dalla televisione, qui al top del motivo stesso per cui era nata, la visione a distanza. Un episodio che segna il punto più alto e insieme finale del romanticismo e della “letterarietà” (da ”L’Orlando furioso” a “Le avventure del Barone di Münchhausen”). Il sogno realizzato e, dunque, la morte del sogno stesso. Méliès ci aveva avvertiti, inventandosi il cinema, che il sogno si sarebbe infranto possedendolo. Fellini lo ha sottolineato, facendo letteralmente incatenare la luna dalla televisione, sempre alla ricerca di scoop pur di spostare più in là l’asticella dell’audience. Il cinema muore e lo dice pure, lasciando la scena al circo televisivo, capace di farci vivere minuti di assurda euforia e anni di rimpianti e vuoti esistenziali. La luna, dunque, come paradigma della nostra realtà perennemente mutante. Pronta ad essere messa in scena ovunque. Fritz Lang, nella sua Germania weimariana, nel 1929 (attenzione all’anno di Wall Street!) ne immagina, con “Una donna sulla luna”, la conquista come disastrosa, perché pericolosa variazione della corruttibile corsa all’oro di chapliniana memoria. La Hollywood propagandista, in piena guerra fredda, anticipa la Storia, per la prima volta, ne “I conquistatori della luna”, 1950, di Irving Pichel, in cui la conquista scientifica è anche e soprattutto vittoria politica. Parallelismo che il cinema statunitense, seppure sotto diverse forme, non abbandonerà più, vedi il recente “First man-Il primo uomo”, di Damien Chazelle, 2018. Il beatlesiano Richard Lester, dalla ironica e ribelle Inghilterra degli anni ‘60, si fa beffa delle superpotenze raccontando, in “Mani sulla luna”, del ’62, di uno staterello invisibile sulla cartina geografica, capace di mettere piede per primo sul satellite conteso, grazie ad un razzo alimentato da un vino particolarmente fermentato. La New Hollywood degli infiammati anni ‘70, vanamente contestatrice e dissacratrice, insidia la verità con “Capricorne One”, 1978, nel quale il regista Peter Hyams riprende la oramai leggendaria teoria del complotto lunare della Nasa ed ipotizza che lo sbarco (virato su Marte, per non esplicitare troppo…) sia stato solo una messinscena cineteatrale, per le finalità politiche di cui sopra. Prima e dopo la conquista, l’americano Stanley Kubrick, con “2001 Odissea nello spazio”, 1968, e il russo Andrej Tarkovskij, con “Solaris”, 1972, rivaleggiano solo in genialità e, prendendo spunto dalla cronaca spaziale di quegli anni, ci regalano due opere d’arte immortali, capaci di andare oltre ogni limite nel raccontarci il destino dell’uomo, fissato in immagini più forti di qualsiasi teoria filosofica. A questo punto la luna sarà pronta ad accompagnare altri cineasti nelle loro narrazioni, riacquisendo quel ruolo poetico che la Scienza e la Storia avevano tentato di sottrargli. Bernardo Bertolucci ne “La luna”, 1979, ed Eric Rohmer ne “Le notti della luna piena”, 1984, come il Buñuel di “Un chien andalou”, 1929, inquadrano la luna come per inquadrare un mistero che tale vuole restare. E solo facendo un po’ di silenzio, e con la luna che ci guarda, mai più prigioniera, forse, dice Fellini nella sua opera di congedo, qualcosa potremmo capire…