L’infedeltà necessaria di Marco Missiroli
di Agata Motta 16-06-2019
Si può essere consapevolmente fedeli solo dopo essere stati consapevolmente infedeli. Alla resa dei conti sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo e vedremo perché) questo il messaggio che arriva forte e chiaro dalle pagine di Fedeltà, discusso romanzo di Marco Missiroli giunto, come da previsione, alla cinquina finalista del Premio Strega 2019.
“Che parola sbagliata tradimento – pensa Carlo, uno dei protagonisti del romanzo – cosa toglieva consumarsi con un’altra ragazza, accaparrandosi una gioia momentanea e dando, possibilmente, una gioia momentanea”. La liturgia del matrimonio resterebbe intatta, su un binario parallelo destinato dunque a non incrociarsi e a non sovrapporsi con l’altro. Che sia illusione consolatoria che mette al riparo dai sensi di colpa o realtà poco importa.
L’autore torna ad esplorare, con modalità diverse e con una scrittura più meditata, costruita, furba e sofisticata rispetto al precedente Atti osceni in luogo privato, il concetto di libertà attraverso il corpo, le sue esperienze e i suoi appetiti. Missiroli passa dal romanzo di formazione su lungo periodo ad un’analisi puntuale di due fasi della vita – la distanza tra l’una e l’altra è di nove anni, un tempo ragionevole per osservare le evoluzioni dei rapporti e le conseguenze delle scelte – dei suoi personaggi: la solida coppia costituita da Carlo e Margherita e i due giovani oggetti del loro desiderio, la studentessa Sofia e il fisioterapista Andrea, intorno ai quali ruotano i membri delle rispettive famiglie, tra cui spicca Anna, madre amata da Margherita e suocera venerata da Carlo, che invece è afflitto da genitori borghesissimi e tradizionalisti dei quali, storcendo un po’ il naso, fanno comodo le raccomandazioni per posti di lavoro più remunerativi e gratificanti e la disponibilità economica necessaria per prendere parte al banchetto immobiliare della Milano che conta.
Carlo e Margherita sono raccontati nella fase del ”malinteso”(il rispettabile professore Carlo Pentecoste è stato sorpreso in bagno con una studentessa in atteggiamenti equivoci che trovano subito un’indignata giustificazione da spendere pubblicamente) e poi in quella dell’assestamento (l’acquisto della Casa con tanta luce e infiniti gradini da salire e l’arrivo di un Figlio taciturno e ipersensibile); si sono traditi, ma non si sono mai allontanati emotivamente e fisicamente. L’uno non ha saputo prendere pienamente il corpo della sua studentessa Sofia, aspirante scrittrice imprigionata nel ricordo della madre morta, ma si è buttato con soddisfazione su altri surrogati di quel desiderio incompiuto; l’altra è riuscita a farsi possedere un’unica volta da Andrea, il fisioterapista gay che consuma in segreto una carica di rabbia e di violenza veicolata sui cani da combattimento e sul ring. Lentamente Anna acquista spazio e spessore nel racconto e diviene quasi un mastice possente in grado di tenere assieme le parti scomposte di chi le si accosta con fiducia. Possiede precisi guizzi intuitivi, in ciò aiutata da una veggente che le spilla soldi in cambio di laconiche parole, e una saggezza ricavata dall’uso di ago e filo, come se cucire indumenti sia stato il modo per tenere assemblati gli scampoli sfuggenti della vita. Anna si astiene da qualsiasi intromissione, pur mantenendo altissima l’attenzione su chi ama, e attorno a lei si coagula un nucleo di affetti sinceri e disinteressati. Per lei si avverte una carica empatica – quella riservata alle simpatiche vecchine di certi film che puntano al cuore – che non suscitano invece gli altri personaggi, chiusi in ossessioni che vorrebbero essere la strada maestra per quella libertà inseguita che invece possiede un ambiguo retrogusto.
Anche Anna ha vissuto la sua trasgressione, il furto di un trancio di tonno al supermercato, e ne ha subìto il castigo e l’espiazione con una vergogna che non ha mai smesso di bruciare, tanto da riviverla nel pesciolino disegnato dal nipote sull’ingessatura della sua gamba.
La precisa topografia dei luoghi, attraversati fisicamente dai personaggi e percorsi con una tale esattezza da avvertire quasi i rumori dei passi, guida la mappa mentale del lettore tra Milano (città sulla quale aleggia la presenza/fantasma di Buzzati) e Rimini – la prima indocile e dicotomica tra periferie in cui si consumano scommesse clandestine e appartamenti costosissimi ambiti come status symbol irrinunciabile, la seconda quasi romantica, dimessa e nostalgica, lontanissima dagli stereotipi goderecci di cui nutrire il turista e vicina probabilmente ai ricordi d’infanzia dell’autore – e si fa essa stessa materia narrativa sulla quale innestare impulsi improvvisi e improvvisi ripensamenti.
L’autore si interroga – ed è forse questo l’aspetto più interessante – sulle dinamiche relazioni che comportano una maturazione, uno scarto netto tra giovinezza ed età adulta. Sì, perché spesso il processo che sembrerebbe frutto di chissà quali lente trasformazioni si rivela invece legato ad un momento, una circostanza, un gesto, un ostacolo, un bisogno, una mancanza ed in essi si insinua il tempo inquieto che scardina certezze e consuetudini, un tempo raccontato in un fluire sciolto e molto visivo.
Fedeltà possiede infatti alcuni tratti del romanzo filmico sin dalla tecnica di montaggio delle sequenze che sconfinano l’una nell’altra come dissolvenze incrociate e non stupirebbe vederne a breve una trasposizione cinematografica, operazione potenzialmente azzardata sia per la scelta del “cosa mostrare e come” sia per la difficoltà di restituire compiutamente le parentesi riflessive. Con perizia Missiroli utilizza la “ripresa” (con focalizzazione variabile) nel passaggio da un gesto o da uno sguardo ad analogo gesto o sguardo di altre mani e altri occhi, per cui l’abbraccio stanco e disilluso tra Carlo e Margherita diventa quello rapido e imbarazzato tra Andrea e la propria madre; lo sguardo alla finestra di Andrea sulla neve appena caduta diventa quello di Carlo e Margherita che vi leggono un buon auspicio per un colloquio di lavoro; le mani del padre di Sofia, “rattrappite una nell’altra quasi a racchiudere un’improvvisa contentezza”, sono le mani di Anna che in esse raccoglie una gioiosa speranza di guarigione. Così in una narrazione che incastra tra loro personaggi e sentimenti e traghetta nel tempo e nello spazio senza disorientare, l’autore registra piccoli slittamenti che fessurano un quotidiano denso di normalità ma ribollente sotto la superficie soltanto un po’ increspata da parole sempre avare e da silenzi che racchiudono dubbi da non palesare. Troppo alta la posta in gioco, troppo rischioso scoprire le proprie carte, meglio ipotizzare e magari illudersi che l’altro o l’altra non sappia o, forse, che finga di non sapere. E’ il solito vecchio gioco delle parti, ognuno la propria e così si va avanti.
L’autore ha voluto solleticare le insoddisfazioni, l’instabilità e le tentazioni che attraversano l’uomo contemporaneo riuscendoci solo in parte. La distanza tra narrazione e personaggi da una parte (per molti dei quali è stato necessario costruire un vissuto accattivante senza riuscire comunque a renderli più veri) e lettore dall’altra rimane fortissima, solo a tratti ci si immerge ma per realizzare subito dopo che si tratta di finzione e che il patto narrativo non è stato firmato da tutti i contraenti.
Lo sforzo di Anna di ingoiare e persino metabolizzare il tradimento subìto e scoperto solo dopo la morte del coniuge conserva una patina di romanticismo retrò per cui le sue emozioni più credibili sono quelle che le suggeriscono un commiato rapido al fine di non creare disturbo; il movimento fisico che più affascina di Carlo è quello che lo spinge a Rimini per compiere finalmente ciò che non era stato capace di fare nove anni prima e che lo porta invece a maturare la capacità di congedarsi da un’ossessione che si tramuta in tenero rimpianto; i gesti più autentici di Margherita sono quelli compiuti sul corpo materno immobile e umiliato dalle feci; le immagini più vere dell’evanescente Sofia sono legate al quieto respiro nella ferramenta paterna; la sofferenza più acuta di Andrea si sostanzia nella scia di sangue e di violenza che attraversa le sue serate; insomma tutti quei momenti, talvolta persino marginali, che dischiudono nuove capacità di amare o di imporre l’amore nei confronti della propria imperfezione sono quelli che si apprezzano maggiormente. La coppia protagonista, impantanata nella ricerca di spazi di libertà e di autenticità, risulta irrimediabilmente sbiadita – soprattutto lei, Margherita, pratica, efficiente, falsamente magnanima, disinibita quel tanto che basta per dimostrare a se stessa di esserne capace – e avrà poche probabilità di ancorarsi nei ricordi del lettore.
Il tradimento non appare, sotto il profilo esistenziale e narrativo, seduttivo e/o risolutivo, ma di certo questo non era neanche nelle intenzioni dell’autore, che lo pone nei termini della necessità finalizzata. La fedeltà del titolo, dunque, non è quella verso il partner. Lo sconfinamento in altri corpi, l’esplorazione dei propri confini fisici, il cedimento alle pulsioni improvvise e irrazionali sono necessari per la piena comprensione di se stessi, sono atti dovuti per non tradire la propria essenza, sono occasioni per ritrovarsi, per concretizzare “l’altra felicità” senza ipotecare quella vicina e a portata di mano, quella assodata da proteggere e coltivare con devozione senza che possa risultarne offesa o semplicemente diminuita.
La fedeltà insomma è quella verso la propria natura e magari – vorremmo aggiungere – anche verso le parti più nobili di essa. Teoria che mette al riparo dal rischio di banalizzare un romanzo che ha diversi livelli di lettura e che, anche per questo, non possiede il respiro universale dei grandi romanzi.
Marco Missiroli
Fedeltà
Einaudi
p.224, € 19