Il gioco combinatorio dell’immaginazione. ‘Gli assassinii di rue Morgue’ di Edgar Allan Poe alla Pergola di Firenze

Sembrava un’idea folle, all’inizio, nell’autunno del 2015. Trasformare i racconti di Poe in una serie di spettacoli itineranti a numero chiuso nei meandri del Teatro più antico d’Europa, in piena notte. Una bizzarria di nicchia, una proposta senza precedenti, un progetto per eccentrici che, come spesso avviene, si è trasformato in un avamposto prezioso intorno al quale, in 118 repliche sold out, si è radunato un folto numero di appassionati. Cinque serie in quattro stagioni teatrali, 5.ooo spettatori, molti dei quali giovani o giovanissimi, alcuni alla prima esperienza a teatro. Aspettiamo con impazienza e ammirazione la quinta stagione, la sesta, la settima…possibilmente l’ottava, la nona, la decima…

Il gioco combinatorio dell’immaginazione. ‘Gli assassinii di rue Morgue’ di Edgar Allan Poe alla Pergola di Firenze

a cura di Sabrina Tinalli

costumi e maschere Giancarlo Mancini

musiche Vanni Cassori

con (in ordine alfabetico) Marcello Allegrini, Fabio Baronti, Andrea Nucci, Sabrina Tinalli, Silvia Vettori

in collaborazione con La Compagnia delle Seggiole

produzione Fondazione Teatro della Toscana

FIRENZE – Sono le due narratrici, all’inizio, a dare il tempo musicale che caratterizzerà l’intero adattamento de Gli assassinii di rue Morgue. Nella sintesi sapiente intrecciano come ironiche Parche ordito e trama di un prologo illustrativo, dissertando analitiche quanto divertite sulle differenze fra scacchi e dama, sui prodigi dell’ingegno e i limiti dell’astuzia. Limiti che poco più tardi verranno biasimati da Dupin con il disincanto pacato di chi sa che la profondità il più delle volte si annida nella superficie, e che osservare i fenomeni a distanza troppo ravvicinata impedisce di individuarne la reale natura.

Ed è un terzo narratore a raccogliere il filo della storia, il protagonista senza nome del racconto. Innominato perché a Poe bastano le spirali dell’incessante cogitare per creare strade, città intere, interni, cortili, personaggi, ossessioni. L’Io/Non Io della vicenda, stabilitosi a Parigi in una casa guasta e antica di cui avvertiamo l’afrore sporulante, incontra per caso Dupin in biblioteca e ne diventa amico. Anzi, il legame elettivo si trasforma in simbiosi, in coabitazione fusionale. La personalità di chi riporta i pensieri di Dupin si dissolve, assorbita da quella del bibliofilo caduto in miseria, dell’appassionato di enigmi, dell’innamorato della Notte. Insieme, al sorgere dell’alba, oscurano la casa per ricreare l’illusione della buia divinità e alla luce di due fiaccole aspettano la notte vera leggendo e conversando, per poi uscire nelle strade, respirare la città, ascoltarne le voci.

Proprio durante una di queste passeggiate vengono raggiunti dai titoli strillati dei giornali, che attirano l’attenzione dei due nel maelström di un crimine raccapricciante e inspiegabile. Due donne, madre e figlia, sono state orrendamente assassinate nel loro appartamento al quarto piano di rue Morgue. Da questo punto la versione teatrale di Sabrina Tinalli si fa trascinante partitura polifonica e impeccabile congegno inventivo. Dai riverberi purpurei dei palchi ci arrivano le voci dei testimoni, alternandosi, incrociandosi, contraddicendosi, ciascuna riportando un singolo frammento della storia, un punto di vista con beneficio d’inventario. Tutti sul punto di ricordare qualcosa senza riuscire a ricordarlo, tutti incapaci di superare la soglia che separa l’osservazione dall’elaborazione, di compiere il passo ulteriore del pensiero verso il gioco combinatorio. Attingendo alla tradizione dei radiogialli per superarla, la Compagnia invera un realismo metafisico, minuzioso e appena anamorfico, che pare discendere dalle visioni di Landolfi, concretissime e inquiete, palpabili ed eternamente elusive.

Bastano le variazioni cromatiche vocali degli interpreti (Sabrina Tinalli, Silvia Vettori, Fabio Baronti, Marcello Allegrini, Andrea Nucci) a modulare un carattere alla La Bruyère, a concentrare in poche battute una vita intera. Ci vengono incontro la confettiera italiana dalla voce zuccherina, la tabaccaia che vendeva alla signora L’Espanaye il tabacco da fiuto, la lavandaia che inclinando deliziosamente verso la ciacola goldoniana ci riassume la quotidianità delle due donne, la ruvida sarta inglese, il gendarme ancora attonito per le grida spaventose. Ci arrivano dettagli da ogni parte: le signore facevano vita ritiratissima, Madame era un po’ rimbambita, le trecce grigie sono state strappate con tutte le radici, la testa era quasi staccata dal corpo e le ossa frantumate, il corpo di Camille dopo la morte è stato infilato nella cappa del camino con una forza sovrumana, Madame il giorno prima aveva ritirato dalla banca quattromila franchi che tuttavia non sono stati rubati. I testimoni concordano sul particolare di aver sentito due voci nell’appartamento prima di riuscire ad abbattere la porta. Una profonda, sicuramente maschile e francese, che esprimeva orrore e rabbia. Era stata udita chiaramente l’interiezione Mon Dieu! L’altra, più acuta, forse di una donna, o forse no, di un russo, o di un tedesco, no di uno spagnolo, chissà di un italiano. Le congetture intorno alla seconda voce rappresentano le briciole di Pollicino, la lettera rubata che nessuno vede pur essendo in bella mostra. La lingua viene identificata dai presenti, di diversa nazionalità, come straniera, perché composta di suoni privi di sillabazione.

Solo Dupin, combinando gli elementi principali – forza e agilità eccezionali, brutalità cieca, assenza di movente e, soprattutto, le sonorità informi – e unendo le virtù della ragione a quelle dell’immaginazione, riesce a comprendere che i delitti non possono essere stati commessi da un essere umano. E’ il momento di scendere nei sotterranei del Teatro, percorrere l’antico sentiero dei cavalli, fermarsi nei pressi di un pozzo buio di indecifrabile profondità nel quale si avvita una stretta scala di pietra; poi ancora più in basso, davanti al minuscolo palcoscenico della stanza delle comparse, dove si consuma l’epilogo e un marinaio rattrappito dallo sgomento confessa a Dupin di aver catturato in Borneo un prezioso esemplare di orangutan fulvo, malauguramente sfuggito al suo controllo. Rivive in modo sommesso, guardando in basso o verso le pareti, la notte fatale in cui ha assistito, impotente, alle ultime fasi del massacro, mentre sentiamo le mura spesse chiudersi intorno al cuore.

Lucia Tempestini 06-04-2019