Harleking – Inteatro Festival

Harleking – Inteatro Festival

di Ludovica Radif 19-06-2019

POLVERIGI – Che la mimica sia un linguaggio è ormai acclarato. Ma che la si possa far danzare, librandola nell’aria con la stessa naturalezza di un sorriso o di un pianto, questa è stata la scommessa (vinta) dello sperimentale di Harleking, in scena, lo scorso giugno, al Teatro della Luna di Villa Polverigi nell’ambito di Inteatro Festival (per Marche Teatro, uno dei partner, con il Teatro Pubblico Pugliese, nel contesto di I-Archeo.S., 1st Call Interreg. Italy-Croatia Programme 2014-20).

Harleking-Arlecchino eredita dalla Commedia dell’arte la furbizia e gli istinti animaleschi, ma se ne allontana nella distanza che separa l’era della Tecnologia dal fare proprio dell’esperienza sensibile.

In un meta-teatro dell’ilarità, scoppia auto-ironico il ghigno di Enrico Ticconi sul confine tra il divertimento, il macabro e il sadico. Gli fa eco Ginevra Panzetti, quasi ritagliata da un giornaletto dei primi del Novecento, quando era ancora il tratto di matita a incurvare di gusto le linee delle labbra ai lettori. E se la banda arlecchinesca a rombi gialli in costa al pantalone li conferma come maschere settecentesche – Ginevra Panzetti è anche disegnatrice e realizzatrice di gioielli – lo chignon doppio, trendy e vintage, la fa uscire da un salone di bellezza della Belle Époque di Chianciano Terme, anche se il suo fisico scattante e il suo sorriso disinvolto la riportano al tempo in cui esibire è necessità: al contemporaneo. Allora tutto si fa sfarzo e sforzo, nell’orizzonte della dissimulazione in cui ogni tinta espressiva si scolora e il singhiozzo appare meno inquietante del gusto insipido di una risata indotta.

Dove non sembra esistere barriera razionale tra la percezione e l’esibizione, il pensiero e il volere sfumano mentre le articolazioni vocali danzano libere, aperte a qualsiasi significato.

E Arlecchino non è più servo ma despota, un “Harle-King” dell’emotività, decidendo per noi cosa e come sentire. E forse la sua atavica fame – quella delle commedie a canovaccio – è fame di autenticità, fame, sia pure di servo, ma di libertà. “Che stress essere al servizio di un padrone pazzo… non avere potere sulla propria persona” – si lamentava il servo Carione nell’incipit del Pluto di Aristofane – riferendosi anzitutto al “corpo”, mentre qui in “Harleking” la schiavitù appare piuttosto quella psico-emotiva, esistenziale. Sotto lo sguardo espressionistico dei danzatori passano allora tanto le scivolate chapliniane su bucce di banana quanto il gusto sadico della violenza psicologica: tutto si mette in discussione, anche quando lei strozza l’altro… salvo poi risuscitarlo in un nugolo di risate. Il riso si fa tangibile, si rincorre, si duplica, si specchia, si riflette in stilizzazioni simmetriche, lì dove femminile e maschile si assottigliano in una fragilità comune, senza genere.

Nell’era dell’ostentazione, la parola si rifugia nell’accenno, in quelle sillabe mimate da Enrico Ticconi, tra sagome di labbra che finiscono col chiudersi a cerchio – come muti pesci – nella sospensione di ogni giudizio.