Stewart & Hitchcock, un sodalizio fra ossessione e misura
di Lucia Tempestini
Può capitare di trovarsi imprigionati in una condizione di temporanea infermità, in una limitazione delle possibilità fisiche, fastidiosa ma non del tutto sgradevole, a causa di un incidente, di una malattia, ecc. Può essere, ad esempio, anche il destino di un famoso reporter di guerra, confinato nel proprio appartamento newyorchese da una frattura. L’estate, al suo acme, ristagna nel cortile intorno al quale si allungano diversi palazzi. La canicola urbana polverosa e giallo cupo è percorsa da conversazioni spezzate, alterchi privati o di ballatoio, musiche, radio ad alto volume, andirivieni accaldati, singhiozzi di solitudine. I giorni e le notti di Jeff si intridono della sensazione sudaticcia procurata dalla camicia, che si incolla fastidiosamente alla schiena e alla poltrona dove trascorre la maggior parte del tempo – un tempo spaventosamente dilatato -. Non potendosi più disperdere nell’azione, nel movimento, tutto l’ordito sinaptico-sensoriale si acuisce e si addensa nella stasi forzata. Ogni dettaglio, suono, voce, gesto che raggiunge la percezione attraverso La finestra sul cortile (1954) si amplifica, si deforma mostrando la radice psichica retrostante, risucchiando a poco a poco l’attenzione di Jeff, e mutandosi, da diversivo, in ragione stessa della sua esistenza. Un’ape regina di danzante disponibilità cambia vita per amore, una giovane coppia consuma i primi, fuggitivi, momenti di passione dietro una tenda chiusa, un “cuore solitario”, spezzato dall’ultima delusione, cerca la morte, un uomo tetro – uno dei tanti banali agenti di commercio – uccide e fa a pezzi la moglie querula e malata.
Hitchcock e Stewart, con drammatica leggerezza (abbastanza distante dall’apprensione scurissima che caratterizza il racconto di Woolrich da cui è tratto il film), ci raccontano il progredire di un’ossessione che arriva ad avvincere anche la burbera, pragmatica infermiera Stella (Thelma Ritter) e la fidanzata dal glamour irresistibile (la sequenza, quasi onirica, in cui Jeff uscendo da uno stato soporoso vede il volto di Lisa Freemont scendere dall’alto per dargli un bacio, emanando tutta la luce dell’eterno femminino, è il prototipo stesso della sensualità cinematografica).
Nel corso della carriera James Stewart ha aderito con sempre maggiore capacità mimetica a quel ruolo di “americano tranquillo” di cui circostanze inaspettate, spesso critiche o tragiche rivelano la caparbietà morale (Mr. Smith va a Washington di Frank Capra, 1939) e, talvolta, perfino una determinazione coraggiosa, mai autoreferenziale o d’occasione.
Particolarmente significativi, in questo percorso artistico, appaiono i personaggi del solido padre di famiglia, con moglie canterina e figlioletto impertinente, coinvolto suo malgrado in un intrigo internazionale prima nell’esotica Marrakech poi in perturbanti prospettive londinesi (L’uomo che sapeva troppo, 1956), e quello del professor Cadell (Nodo alla gola, 1948), costretto con orrore a prendere coscienza, nel corso di un macabro e ironico party – o simposio perverso – del delitto “dimostrativo”, superomistico, commesso dai due allievi (durante l’interminabile, sperimentale, piano-sequenza che circoscrive e comprime la storia a fini ansiogeni, il nucleo centripeto della messa in scena è rappresentato dalla cassapanca – che funge da tavolo – in cui è riposto il cadavere).
In La donna che visse due volte (Vertigo, 1958 dal romanzo “D’entre les morts” di Boileau e Narcejac) Hitchcock attua una mise en abyme delle sue ossessioni più intime, aiutato in questa operazione dal misurato tormento di cui Stewart sa innervare ogni sguardo di Scottie. L’ex poliziotto protagonista di questa storia – a tratti curiosamente proustiana -, malato di acrofobia, oppresso dal senso di colpa per la morte di un collega, appare fin dalle prime battute destinato a cadere nel controllato e sapiente dilagare dei simboli, nel labirinto della passione per l’enigmatica, forse folle, “donna fantasma” Madeleine. La paura/desiderio del vuoto e della perdita – di sé e delle persone amate –, rappresentata dall’immagine ricorrente del vortice, del gorgo, della spirale (che affiora ovunque: nel bouquet che Madeleine copia dal ritratto di Carlotta Valdes, nei cerchi concentrici della sequoia, nel lampadario dell’Hotel McKittrick, nelle sedie di Midge, nei capelli di Madeleine), confluisce nel trasporto smarrito, conflittuale, interrogativo, che Scottie prova per il luminoso, biondazzurro, mistero di Madeleine. Un chiarore fisico che, non tanto paradossalmente, circonfonde l’identità labile, mutevole della donna (che infatti si duplicherà nella figura, bruna ma altrettanto inafferrabile, di Judy) e si configura come porta sull’irrazionale, sull’incomprensibile; sull’aspetto più estremo, buio, pericoloso della natura femminile.
Le caratteristiche del film – il ritmo lento, ipnotico, la complessità angosciosa della vicenda, l’aspetto onirico, il raffinato cromatismo, la ricerca formale (i filtri, le luci al neon, la famosa carrellata all’indietro combinata con lo zoom in avanti nella scena del suicidio di Madeleine) – determinarono l’insuccesso di pubblico e di critica che fu all’origine della rottura artistica fra Hitchcock e Stewart.