Il Cunto di Basile “Scorticato” da Emma Dante, al Piccolo Teatro di Catania
Anna Di Mauro 29-03-2019
CATANIA – Docere et delectare. Ne “Lo cunto de li cunti” seicentesco di Giambattista Basile l’intento di educare divertendo è il perno delle 50 novelle del colto affabulatore, il cui fascino continua ad attrarre i nostri artisti contemporanei, come dimostra l’adattamento teatrale “La scortecata” di Emma Dante, preceduta da grandi attori e registi, da Beppe Barra a Francesco Rosi con il film “C’era una volta”del ’67, al più recente e lussureggiante “Il Racconto dei Racconti” di Matteo Garrone, 2015.
Lo spettacolo della regista palermitana, presentato al Festival di Spoleto 2017, in tour in Italia, approdato al Piccolo Teatro di Catania in un cartellone che presenta il meglio della drammaturgia contemporanea, è ispirato a “La vecchia scorticata” di Basile, acconciata secondo lo stile inconfondibile della Dante. Un andamento serrato in escalation, pervaso dal testo originario, ma con conati suoi, in una sorta di pantomima grottesca di due uomini che incarnano, secondo le regole del teatro del seicento, ma anche ammiccando alla perdita del ruolo sessuale, la laida vecchiezza di due sorelle, Carolina e Rusinella, recluse in una convivenza forzata e irrinunciabile, in smanie di erotismi, di bellezza e gioventù, in una sorta di metateatro dai gustosi e sorprendenti effetti comico-patetici. L’immaginario del “Facciamo che io ero…” qui è trasferito nella riesumazione del cunto di due vecchie, intristite nella miseria, nel nubilato e nella bieca solitudine. La più giovane delle due, si fa per dire, immagina di essere protagonista dell’attenzione sessuale del Re. Grazie al suo canto, divenuta oggetto di desiderio, incarnerà la vecchia del Cunto, assecondata dalla sorella, fino all’estremo gesto della scarnificazione, quando all’immaginario ridicolo e pietoso si sovrappone la stanchezza e l’orrore di una realtà non più sostenibile.
Dramma della vecchiaia e della solitudine scomposto dai toni sardonici del colorito linguaggio partenopeo e dalla partitura musicale, il celebre cunto, narrato in questa forma parossistica, veste i panni di un’epica, straziante, impudica, feroce tragedia esistenziale, svelata in tutti i suoi sconcertanti risvolti umoristici nella loro spietata rappresentazione. Il disperato bisogno d’amore di due vecchie, saziato dal mitico Re, può essere solo un paradossale equivoco. Triste verità.
L’incipit ironico, grottesco e giocosamente allusivo le coglie a biascicare pittoreschi napoletanismi tra due sediole e una terza su cui poggia il modellino-giocattolo di un castello di fiaba, in sbilenche calze e guepière, mentre succhiano avidamente con gesti reiterati evocativi dell’atto sessuale, ma anche del lavaggio dei denti, il proprio dito mignolo, da mostrare al Re dal buco della serratura di una porta, ultimo elemento scenografico di una scena scarna come la loro vita. Nella finzione l’inganno riuscirà. Il bramoso sovrano crede alla giovinezza delle carni mostrate e alla pudicizia della falsa fanciulla che desidera l’incontro al buio, per ovvie ragioni. Quando però la mattina dopo il Re (impersonato dalla sorella) si accorge dell’orribile inganno, in preda al disgusto defenestra immediatamente la vecchiarda che miracolosamente rimane sospesa a un albero, finchè giungerà la fata (sempre la sorella) che magicamente trasformerà la vecchiarda in una bellissima e avvenente giovane creatura dalla chioma rossa e dal vestito a ruota, nella scena centrale, potente e splendida, grazie all’uso sapiente delle luci, tra effetti magici e spunti cabarettistici. Il Re se ne innamora chiedendola in sposa. E’ la fiaba. Ma il culmine della felicità diventa l’apice della disperazione.
Nel finale la versione della Dante si discosta da Basile, sterzando dalla morale spicciola del Cunto che condanna gli imbellettamenti delle vecchie, come nel finale delle Ecclesiazuse di Aristofane, al dramma esistenziale di due reiette solitudini, trasportandoci attraverso un pirandelliano sentimento del contrario nel buio della disperazione della vecchiaia e dei suoi mali, culminante tra le lacrime in una tremenda richiesta della novantenne, la più giovane delle due, stanca di inutili giochi illusori, che impugnando un pugnale, implorerà la sorella, fuori dai giochi, di scorticarla, per essere finalmente liberata dalla sua grinzosa scorza e dall’orribile giogo della vecchiaia leopardianamente crudele che la consuma e disonora.
Eutanasia, autopunizione o estremo desiderio di un magico e impossibile cambiamento? Il luccichio baluginante del pugnale sul finale di partita delle due derelitte taglia in profondità, aprendo squarci di verità insostenibili e indicibili.
Straordinaria la performance dei due infaticabili Carmine Maringola e Salvatore D’Onofrio, formidabili attori divenuti maschere della Commedia dell’Arte, commedianti shakespeariani, indimenticabili caricature. La regia asciutta, intensa, coesa, domina tra fabulismi e dramma conditi da melodie partenopee, passando per il filo di un’ironia che sfocia nella pietà per chi cade. Un “cunto” che incanta e scortica. Uno spettacolo da non perdere.
LA SCORTECATA
Liberamente tratto da “Lo cunto de li cunti”
di Giambattista Basile
Testo e regia Emma Dante
Con Salvatore D’0nofrio, Carmine Maringola
Elementi scenici e costumi Emma Dante
Luci Cristian Zucaro
Assistente di produzione Daniela Gusmano
Assistente alla regia Manuel Capraro
Produzione Festival di Spoleto 60 – Teatro Biondo di Palermo
In collaborazione con Atto Unico Compagnia Sud Costa Occidentale.
Coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma.
Al Piccolo Teatro della Città di Catania fino a Domenica 31 Marzo