Franco Zeffirelli: quando forma e sostanza coincisero

Franco Zeffirelli: quando forma e sostanza coincisero

di Angelo Pizzuto 17-06-2019

Metteur en scène per antonomasia, quasi ad oltranza, alquanto vanesio e comunque di innata avversione per la mediocrità (piccolo borghese), “la miseria dell’artista plebeo”. Sontuoso ma non del genere ‘sgargiante-stravagante-eccentrico’, semmai di un post barocco tutto ‘reinventato’. Il suo “senso della misura”? Permettersi e pretendere l’essenza del “meglio” tangibile: sulla scena come nella vita (a.p.)

Era una personalità terribilmente votata alla forma: anche quella più violenta e oscura, che trovava la sua forza nell’eleganza visiva e narrativa (F. Secchi Frau)

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Quella sera a Spoleto, che ricordo come se fosse ieri, attorno al tavolo di una verace trattoria, credo non marchiata da alcuna stella Michelin, fu il finto désengagé, e provetto sornione, Tullio Kezich (tale perché era egli stesso il primo bersaglio del proprio humour poco reverenziale e molto-triestino) ad animare la conversazione…”quale dei due Franco, stasera, giusto per adeguarci, stai mandando allo scoperto ? …E quello vero.. arriverà più tardi?…Perchè vedi, amico mio, io penso che in te convivano, come in tanti noi per carità, due personalità diametralmente incompatibili. Che non ti rendano schizoide ma un po’ nevrastenico sì…Ecco…se sapessi un po’ darti una regolata” …

Gelo, imbarazzo, sorrisetti maltrattenuti fra noi astanti e giovani critici al Festival dei Due Mondi (di secoli remoti) perché il Franco in oggetto era nientemeno che Zeffirelli, una fra le maggiori glorie dello spettacolo italiano all’estero, esegeta dell’opera lirica, campione d’incassi ovunque si proponesse, amico personale della Callas, di Anna Magnani, di Liz Taylor, oltre che di Nureyev, Placido Domingo, Luciano Pavarotti… e non so quale altra sfilata di inarrivabili divinità in terra. Qual era il difetto (di Zeffirelli) su cui si accaniva (Kezich)? Il deserto pietrificato, la voragine o lo jato che separavano (e sempre separarono) il Franco Zeffirelli commensale di buone grazie, convenevoli e democratisissimi costumi dal suo alter-ego preposto alle apparizioni ufficiali, alle interviste in pompa magna, alle mondanità da gossip (cui però mai prestò il fianco): generalmente paludato da sfinimenti e insofferenze rispetto alla “genetica mediocrità della cultura italiana (non che sbagliasse…), al suo pressapochismo clientelar-nepotista”, ma soprattutto agli “odiatissimi comunisti che tutto pervadono e condizionano, né più e né meno di come facevano il fascismo e i suoi gerarchi, all’epoca in cui ero un ragazzino (‘pars veritatis’ anche in ciò… per noi fastidiosa ai tempi della ‘questione morale’ di Berlinguer e del Manifesto di Pintor, Rossanda, Magri e Castellina).

Sia come sia, ed archiviato aneddoto di anni remoti, resta inconfutabile, come fu per Giano bifronte, che Franco Zeffirelli (Scespirelli, lo sfotteva Flaiano ai tempi de “La dolce vita”) è stato e rimase, sino a che esercitò la sua arte, il più contraddittorio, discontinuo, contestato e riverito dei registi italiani dinanzi al tremendo cospetto del…botteghino. Non ebbe premi di particolare rilevanza, se non una candidatura all’Oscar, cui in pochi cedettero, per “Romeo e Giulietta” del 1969, più altrettante inclusioni ed esclusioni dai David di Donatello e (se ben ricordo…ero fra i giurati, allora) dai Nastri d’Argento, occasione diffusa ed ambita – nessuno escluso – di andarsene tre giorni a sciabordare giù a Taormina e, in particolare, al mitico Atlantis Bay dell’Isola Bella. Altri tempi, altri luoghi, altri stati d’animo…Non è questo che conta.

Conta invece l’acclarata magistralità con cui Franco Zeffirelli, granduca della Forma e dell’Estetica ispirata ai più generici ideali della Bellezza (ellenica, rinascimentale, del verismo verghiano o di Cristo da Nazareth?…di tutto un po’) sia stato il migliore, eclettico, giramondo “metteur en scène” di cui l’Italia può menar vanto e – oggi che a 96 anni passa a miglior vita – rimpiangere quale “cifra stilistica” di un ‘brand and touch’ appartenenti (nel bene e nel male) all’antiquariato dello spettacolo zelante, palpitante e di pari aristocrazia (per oggettive capacità organizzative, intuitive, decor-architettoniche dell’ex allievo prediletto di Luchino Visconti – unitamente a Francesco Rosi – e sodale per una vita, bisbocce comprese, di Patroni Griffi).

Cosa dicono di lui gli annali dello Spettacolo che meticolosamente consultiamo e compariamo? Che, dopo l’apprendistato ad Aci Trezza per “La terra trema” e un desolante esordio nel cinema da regista esordiente di uno strampalato, non recepibile “Camping” (inizio anni ‘50), Zeffirelli inerpicò la fama internazionale (con relativi introiti economici, spesso devoluti ad enti e fondazioni) realizzando, per il teatro lirico, uno dopo l’altro, “Cenerentola”, “Pagliacci” , “Cavalleria rusticana”, “Lucia di Lammermoor”.   Del tutto refrattario al neorealismo, al quale si era accostato ‘facendo gavetta’ anche con Antonioni, De Sica e Rossellini, Zeffirelli deve attendere il 1966, e le buone tramature dei ‘producer’ di allora (quasi tutti svezzati dalla Hollywood sul Tevere), per affermarsi, urbi et orbi, con “La bisbetica domata”, incoronata da due interpreti di (a priori) appeal quali Liz Taylor e Richard Burton. Per poi accostarsi, con dichiarata “umiltà religiosa” al francescanesimo di “Fratello sole, sorella luna” del 1976, onestamente affrancato dai trabocchetti del devozional, ‘santin’, oleografico.

Sulla via del kolossal si trova poi, due anni dopo, con “Gesù di Nazareth” purtroppo edulcorato (nonostante l’oggettiva ambizione dell’impresa) da “manierismi, misticismi, posticce umbratilità figurative” che tanto fecero irritare un (mio) personale ‘tutor’ quale Fernaldo Di Giammatteo. Peggiorando poi la situazione, e la trasferta americana, con lo zuccherevole remake de “Il campione” di King Vidor (1931), qui rimpicciolita ad una “lacrimevole vicenda ambientata e asfissiata dal mondo della boxe”. Altra dimenticabile produzione internazionale pare che sia stata, nel 1980 (ammetto di non ricordare), “Amore senza fine”, anch’esso di concepimento statunitense risoltosi nel “melodramma adolescenziale di fremiti e tormenti in carta patinata” (protagonista l’allora giovanissima Brooke Shield). Cui farà seguito, nel 1982, la portentosa trasposizione de “La traviata” di Verdi che, stando ai maligni, “meglio enuclea i suoi temi prediletti”, le sue storie, i suoi ambienti decadenti ma orpellati: “tutto meravigliosamente e morbosamente sino alla impetuosità dell’urlo”, mentre a farla da padrone è il compiacimento “del languore, del lacrimevole, dell’amore straziante e divino, come ai tempi del cinema muto”

Ovviamente saremmo ingiusti se limitassimo il ricordo di Zeffirelli alle sue tante disavventure cinematografiche (in parte riscattate da “Storia di una capinera”, ma di nuovo in ribasso con “Callas forever” e “Un tè con Mussolini”, seppur irrorati dalla devozione per la sventurata soprano e da una inusitata-isolata vena autobiografica). Non appuntare, ad esempio, la miriade di (eleganti) allestimenti di prosa firmati nel pieno della sua maturità: da “Chi ha paura di Virginia Woolf?” a “Dopo la caduta”, da “Lorenzaccio” (fastoso e tripudiato alla Comedie Française) alla “Maria Stuarda” illuminata da due attrici del calibro di Valentina Cortese e Rossella Falk. Altre divagazioni? Un “Sei personaggi in cerca d’autore” dignitosamente condotto a termine da Enrico Maria Salerno e il (per noi) irripetibile gran-galà al Metropolitan di Catania con “Così è se vi pare” (riuscito… così così) che fu l’ultima volta in cui Paola Borboni andò in scena (e per pochi mesi), e poi auto-immortalata da Zeffirelli che, al momento degli applausi (come se lo procurò?) trascinò in proscenio una sorta di scranno a forma di trono da cui tutti ringraziare. E benedire gli astanti.

Era fatto così, quell’uomo ingegnoso, narciso e bizzarro: talvolta riusciva a stupire, a divertire, altre molto meno, anzi irritare per il gusto “toscanaccio” di saperlo fare….Amen