La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

La balena imbalsamata di Krasznahorkai. ‘Melancolia della resistenza’ ed. Bompiani

 

Sembra un tratto peculiare della letteratura dei paesi europei centro-orientali quello dei personaggi strambi al limite dell’alienazione o della follia, quello delle storie in bilico tra la più abbrutente solitudine e i grandi sogni impossibili. Basterebbe scomodare autori quali i cechi Hrabal o Haŝek per averne conferma, ma la lettura di Melancolia della resistenza dell’ungherese László Krasznahorkai, pur vicino nello spirito e nella caratteristiche essenziali agli autori citati, se ne distacca per la totale assenza di ironia che viene sostituita da una visione più cupa e disperata dell’agire umano.

Ripubblicato a distanza di cinque anni (la prima edizione italiana era della scomparsa casa editrice Zandonai) da Bompiani, il romanzo è ambientato in una piccola cittadina ungherese, sulla quale l’autore preferisce mantenere l’anonimato pur inserendo alcune coordinate che potrebbero facilitarne l’identificazione, al fine di rendere subito evidente e forte la valenza metaforica che potrebbe assumere la vicenda. Nello srotolare le microstorie dei tanti abitanti, Krasznahorkai utilizza una tecnica che potremmo definire “a staffetta”, perché la storia avanza e progredisce nel momento in cui il personaggio coinvolto porge il testimone al prossimo personaggio del quale il narratore seguirà la corsa o il pantano immobile, le emozioni segrete o gli avidi istinti.

La recente proliferazione di romanzi distopici – tra i quali Melancolia della resistenza si inserisce a pieno titolo – segnala con chiarezza una condizione di tentata e mancata resistenza ad una società civile – o forse è più opportuno dire incivile – nella quale non ci si riconosce più. Il cambio di guardia prospettato da Krasznahorkai non veste i panni del nuovo, ma sembra sprofondare negli anni bui dell’ordine costituito – dall’alto e senza possibilità di confronto – e dell’asservimento brutale ai cinici di professione, ai rampanti ammannitori di improbabili banchetti populisti. Se teniamo conto del fatto che il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1989, l’autore si mostra critico tanto nei confronti dell’agonizzante comunismo ungherese, che avrebbe ridotto il paese in un luogo malsano dominato da paure indefinite, sia nei confronti degli eventuali “nuovi manovratori” che spacciano l’ordine come il più prezioso dei beni conseguibili e complottano – immolando il solito capro espiatorio – per crearsi una credibilità politica e sociale a buon prezzo. Nel solco aperto nella fase del cambiamento, si insinua un grottesco circo che espone una gigantesca balena imbalsamata e che, pare, si porti dietro un seguito di facinorosi e violenti personaggi che si abbandona a violenze tanto inaudite quanto gratuite. Pur senza essere regale e minacciosa come la bianca Moby Dick, anche intorno a questa balena si coagula un universo di paure e speranze, di sensazioni contraddittorie e spiazzanti. Il giovane postino Valuska vi scorge una bellezza magnetica che cattura lo sguardo e lo immobilizza nell’atto del guardare, gli altri invece ne avvertono un sentore di marcio e di decomposizione, un’attrazione perversa che istiga alla violenza.

E’ un romanzo strano e allucinato, che afferra e risucchia per qualche pagina per poi respingere in modo molesto, come nella lunghissima tirata del vecchio Eszeter, intellettuale e musicista, che attraverso il semplice atto di attaccare un chiodo trova la quintessenza di una personalissima filosofia: egli decide di far cambiare rotta alla sua stanca vita, con un’ulteriore chiusura al mondo esterno e una patologica apertura empatica al giovane mezzo matto, Valuska, cui vanno per intero anche le simpatie del lettore, l’unico personaggio – tra squali e opportunisti di professione – che conservi ancora la capacità di stupirsi e di scorgere ed apprezzare il bello anche dove non ce ne sarebbe neanche l’ombra.

Che da un romanzo tanto immaginifico e visionario si potesse trarre un film altrettanto denso di immagini e situazioni simboliche era persino troppo ovvio. E’ del 2000, infatti, il suggestivo Le armonie di Werckmeister, sceneggiato dallo stesso Krasznahorkai e dal regista Béla Tarr, il cui titolo rimanda al musicista tedesco noto per un tipo particolare di accordatura che, nel romanzo, rappresenta l’obiettivo degli inani studi del vecchio Eszeter, coniuge tradito e abbandonato a se stesso della spregiudicata donna che prenderà, insieme con un sinistro e compiacente generale, le redini del potere nella cittadina ormai giunta al collasso definitivo. Nel romanzo, come nel film, i due personaggi chiave del sognatore Valuska e del musicista Eszeter hanno un ruolo privilegiato, essi sono i depositari della tentata malinconica resistenza al male, ma il loro approccio con la realtà è troppo astratto e utopico, non può attecchire nessun sogno nel terreno solcato da cadaveri e immondizia in cui la sorte li ha posti a vivere. Sono perdenti, eroi e martiri, l’uno con lo sguardo perennemente in alto nella stupita osservazione del cosmo, l’altro sedotto dal richiamo dell’armonia cercata nelle note e nella purezza dei rapporti umani.

Durante la lettura potrà capitare di odiare certe complicazioni linguistiche e certe estenuanti lentezze, ma alla fine, anche a distanza di mesi, qualcosa rimane pervicacemente attaccato alla memoria, qualcosa di indefinibile che possiede un retrogusto malinconico e inquietante.