Il Tiranno o il potere della maggioranza. ‘Giulio Cesare’ di Shakespeare, rivisto da Sinisi/De Rosa, al Teatro Argentina di Roma

Il Tiranno o il potere della maggioranza. Giulio Cesare di Shakespeare, rivisto da Sinisi/De Rosa, al Teatro Argentina di Roma

di Giuseppe Tumminello 01-06-2019

ROMA – Il Potere come demone venefico, possessivo e vendicativo è il protagonista metaforico, evocato attraverso trame e personaggi shakespeariani, del dittico Tito/Giulio Cesare, andato in scena al Teatro Argentina di Roma.

Le due opere, proposte insieme, prendono forma nell’ambito del progetto Glob(e)al Shakespeare – mostrato alla decima edizione del Napoli Teatro Festival e vincitore del Premio della Critica ANCT come ‘Migliore progetto speciale 2017’ – che ha coinvolto drammaturghi, registi e diversi attori nella singolare operazione di riscrittura contemporanea e messa in scena di opere del Bardo.

Giulio Cesare (Uccidere il Tiranno), riscritto da Fabrizio Sinisi, per la regia di Andrea De Rosa è una riflessione politica e filosofica sul Potere, incentrata sul tirannicidio e sulla sua giustezza in vista del bene comune. Traspare anche una visione psicanalitica del Potere/Tiranno, simbolizzato dal Padre: come Bruto, ogni figlio lo ama e lo odia e per liberarsi tenta di ucciderlo, ma allo stesso tempo quell’idea/azione diventa il suo tarlo. Nell’ultima parte, l’asse si sposta sul Potere della Parola e dei Media, sfruttato anche dai moderni tiranni per sottomettere le masse, rimarcando, dall’altro lato, il Potere della Maggioranza che s’identifica nel vero Dio. Fabrizio Sinisi sceglie di non ridurre il testo di Shakespeare, ma di focalizzarsi su una parte, riscrivendo un’originale versione in versi liberi e riducendo i personaggi a quattro: il triunviro Antonio e i tre cospiratori Bruto, Cassio e Casca; il protagonista dell’opera, quasi assente nella tragedia di Shakespeare, qui è già morto.

La visionaria regia di Andrea De Rosa e i suoni sotterranei del sound designer G.U.P. Alcaro ci portano nelle atmosfere funeree e cupe dell’inizio. La scena spoglia diviene una tomba, illuminata da una luce notturna. Il fondale è un muro grigio. La buca centrale della pedana è la fossa mortuaria dove giace, coperto da un lenzuolo, il corpo assassinato di Cesare. Un enorme sacco scende dall’alto e un uomo lo colpisce con violente e ritmate coltellate, facendo rovesciare una grande quantità di terra nera. Con una pala in mano, di spalle e con gesti continui e ripetitivi, l’uomo la spala per seppellire la salma. Asserragliati nelle tre botole/nascondigli sul proscenio, i congiurati, come topi di fogna, emergono a mezzo busto e intonano a turno, con veemenza, i monologhi in cui si confessano con il pubblico, rivendicando orgogliosamente che sono stati loro a uccidere Cesare. Il primo a sbucare al centro è Bruto (Andrea Sorrentino), con il petto nudo, appare instabile, irrequieto. Dice che ha camminato a lungo per la strada senza meta, col solo scopo di sfinirsi. Invoca l’approvazione del cielo per l’uccisione del padre/tiranno, perché si sente in colpa, ma esplode in un grido crescente contro Dio.

Dalla botola accanto emerge l’acuto Cassio (Daniele Russo): un uomo anonimo, indistinguibile, ma con il corpo e il volto tatuati. Parla di Roma che non sopporta padroni e descrive Cesare come violento, carismatico, furbo, effeminato, basso di statura. Lo accusa di avere corrotto e violentato Roma. Cassio non ha rimorsi e con un crescendo di gioia e di euforia vomita la sua rabbia rivendicando di avere inferto lui la prima coltellata.

Infine Casca (Nicola Ciaffoni), con il suo complesso d’inferiorità, si mostra come un essere invisibile, sempre presente, ma nascosto tra la folla. C’era anche lui nel giorno dell’incoronazione, quando Cesare respinge fintamente la corona. Poi si sfoga, contro di lui che si credeva un dio e come una rivalsa, con un ritmo forsennato e una voce che si fa roca fino all’incomprensione scoppia: «Casca, l’insetto, il cagnolino dei grandi, Casca il tuttofare, il traffichino, ha ucciso Cesare!» Rumori intermittenti e assordanti di un elicottero che sembra sorvolare il teatro ridestano il pubblico che rimane attonito. D’un tratto i toni convinti e rabbiosi dei congiurati si fanno più esitanti… Uccidendo il Tiranno, si aspettano che il popolo li porti in trionfo. Invece, capiscono tardivamente che in realtà il popolo amava Cesare e lo voleva come Tiranno: a nessuno importava di perdere la libertà.

Cassio continua la sua amara riflessione costatando che Roma dopo Cesare non può più fare a meno di un tiranno, “come un organismo tossico, che dipende dalla sostanza che lo uccide” e intuisce che “vivo o morto il tiranno esiste e rimane necessario”. Perduti e confusi, i cospiratori escono dalle botole/tane.

L’arguto Cassio esorta Bruto, il prediletto di Cesare, a parlare all’orazione funebre, mostrandosi come il giusto erede: deciso e forte, spietato e rivoluzionario. Ma Bruto dubita di ogni cosa e di se stesso. Sembra un dialogo tra amanti, sottolineato da liti e incomprensioni. Inaspettato, quasi sensuale è il bacio profondo, ‘platonico’ tra loro: una maniera di “rendere con quel passaggio – dice il regista De Rosa – il rapporto d’amore discepolo/maestro tra i due personaggi […] Bruto viene sedotto, ammaliato, finanche plagiato da Cassio e dalla sua abilità retorica”.

Bruto decide di andare al funerale di Cesare e parlare. Qui l’attore Andrea Sorrentino/Bruto, sostenuto dalla sensibilità registica di De Rosa e dal contrappunto sonoro di G.U.P. Alcaro, riesce a trasmettere delle emozioni intense allo spettatore, che si commuove e partecipa alla tragica situazione: interpreta il monologo dell’orazione sbattendo di spalle, ripetutamente, contro il muro del fondale, spinto da una forza violenta, al ritmo di affondi di pala nella terra, come dei simbolici schiaffi paterni. Mentre si rialza da ogni caduta, Bruto, uomo d’onore, rivela che amava Cesare, ma l’ha ucciso perché “più di quanto amassi Cesare, / io amo Roma”. Poi dichiara che lo Stato non deve appartenere a nessuno in modo esclusivo. Stremato, quasi a terra, lacrimando, termina il suo discorso supplicando il pubblico: “C’è qualcuno tra voi / che vuole essere un servo?”

Senza respiro, con una dissolvenza incrociata, prende la parola l’altro uomo, fino a quel momento muto: è il triumviro Antonio (Rosario Tedesco). Si avvicina lentamente sussurrando il dolore per il suo amico Cesare, “ammazzato come un cane”. Poi si rivolge a Cassio, l’anima nera, dicendogli che anche se il Tiranno/Cesare è morto, la sua idea rimarrà viva e gli getta un pugno di terra in faccia.

A questo punto, c’è un primo segnale straniante. Antonio scende in platea e comincia a declamare la celeberrima orazione funebre in maniera sciatta, con un tono superficiale, colloquiale. Difende Cesare, contestando Bruto, Cassio e Casca, uomini d’onore, che hanno ucciso il Tiranno per il bene dello Stato. Poi legge il testamento di Cesare. E qui la performance si fa pop: luci in platea, microfoni su aste che si fingono mitra, rimbombi, incursioni sonore… sulle note funk, dalle scintille psichedeliche, di Vitamin C dei Can, inizia la decisiva battaglia di Filippi, in Macedonia, tra Antonio e i congiurati di Cesare.

Un catalogo di effetti speciali bellici con coreografie militaresche, una carrellata di armi di distruzione di massa e dei loro effetti devastanti: frecce scagliate dal basso verso l’alto, carri da guerra; spade, lance e scuri; mitragliatrice; bomba al tritolo; bomba atomica; gas nervino, fosforo bianco. Muore Casca. Cassio è ucciso da Antonio, nel giorno del suo compleanno. Bruto arriva alla conclusione: «Ho combattuto mio padre, / ho ucciso mio padre, / e uccidendo mio padre / ho perso. Il Padre / vince sempre, /… C’è un solo modo di / eliminare il Padre: / non uccidere lui, / ma uccidere noi stessi.»

Rimane Antonio, solo, ormai unico vincitore. È l’uomo nuovo, feroce, ma con il volto umano e con il sorriso sempre stampato sulle labbra. E quasi in un comizio (populista) assai attuale, chiude: «E costruiremo altri muri perché noi / sappiamo qual è il momento della forza / e useremo quella forza, /… anche contro di voi… / per proteggervi. / Da ora tutto è possibile. / Un tempo nuovo inizia.»

 

Giulio Cesare (Uccidere il Tiranno)

riscrittura originale Fabrizio Sinisi

con

Nicola Ciaffoni (Casca)

Daniele Russo (Cassio)

Andrea Sorrentino (Bruto)

Rosario Tedesco (Antonio)

regia Andrea De Rosa

scene Francesco Esposito

costumi Chiara Aversano

luci Salvatore Palladino, Gianni Caccia

progetto sonoro Alessio Foglia, G.U.P. Alcaro

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini