La tecnica della lentezza. Intervista a Edoardo Fontana

La tecnica della lentezza. Intervista a Edoardo Fontana

Edoardo Fontana

Edoardo Fontana è nato nel 1969 a Milano, dove ha lo studio nel quartiere più cosmopolita della città. È xilografo, storico dell’arte, grafico editoriale. Sue opere — xilografie e disegni — sono state esposte in numerose città italiane e hanno illustrato copertine di libri e riviste.

Ha partecipato alla realizzazione di esposizioni e cataloghi, le mostre più recenti sono state: Liberty in Italia (Reggio Emilia, 2016), Le Secessioni Europee (Rovigo, 2017), Il segno dell’avanguardia. I futuristi e l’incisione (Lucca, 2018), tutte con catalogo Silvana Editoriale.

Ha inoltre curato la mostra Incidere il movimento. Furio de Denaro – opera grafica 1982-2012, tenutasi a Trieste nel 2018.

Salomè I. 2017

Ti definisci xilografo anche se in realtà sei un artista molto eclettico e versatile. Quando e come è nata la tua passione per la xilografia e attraverso quali tappe l’hai coltivata?

La xilografia è qualcosa di un po’ diverso da ciò che generalmente viene relato all’arte. È l’apice di una serie di abilità, essendo anche la più semplice nel loro novero. Tra queste il disegno inevitabilmente è alla sua origine, malgrado qualcuno possa sostenere il contrario, credendo in quel demone che si chiama improvvisazione e guida molta dell’arte cosiddetta contemporanea. Un demone senza pietà che fa strame dei suoi adepti dopo averli ingolositi con false prospettive. Poi c’è la parte squisitamente artigianale dove si preparano legni e ferri per incidere. Infine la stampa che si ottiene inchiostrando la matrice con un processo non semplice e quindi una procedura che prevede l’uso di stecche da scultore, ossi di balena, impiegati con sensibile forza affinché ogni segno abbia il suo vigore, la sua grazia oppure la sua delicatezza. In mezzo c’è l’incisione, il legno che viene scavato talvolta profondamente altre volte con segni appena percettibili. Da quando, per la prima volta, molti anni fa ormai, vidi una incisione di Emilio Mantelli, La bimba −, capendo che quel segno, con il suo equilibrato alternarsi di pieni e vuoti, nell’apparente approssimazione realizzativa aveva cambiato la mia percezione della bellezza e la mia vita − seppi che sarei diventato uno xilografo, così come ho poi stampato, scritto, sul mio biglietto da visita.

 

Una volta ti ho sentito dire che “la xilografia è una forma di meditazione sul senso dell’arte”. Ci puoi spiegare meglio questa affermazione?

Ogni volta che inizio una nuova incisione c’è sempre un momento in cui sento che lo spazio liscio contenuto nel perimetro della matrice, carteggiata fino a divenire una specie di specchio, non può che essere guastato dal mio grafismo; che nessun disegno risparmiato può valere la bellezza di quel pero che si lascia accarezzare con i polpastrelli e, se si pone attenzione, rilascia un fremito di piacere. La xilografia è una forma primitiva di riproduzione dell’immagine e non permette ripensamenti, quindi nel momento in cui la sgorbia ha asportato il legno in una determinata area della matrice è impossibile ricomporne l’originaria omogeneità. Ne risulta quindi il bisogno di una attenta previsione della ‘ferita’, poiché in fondo di questo si tratta, di un intervento che violenta la viva superficie vergine del legno e ne corrompe la perfetta grazia originaria. Oggi siamo ormai abituati a stare sempre sulla superficie delle cose, passare, come se fosse tutto una rete web, da un link all’altro, per conoscere tutto. Ebbene la xilografia richiede un segno profondo, che entri nella materia. Un segno quasi verticale che vada in profondità così come dovrebbe fare la ricerca artistica, a squassare le regole, ad aprire un varco che permetta di cadere nell’abisso. Di perdere sé per trovare una consapevolezza nuova. Quando incido ho l’impressione di essere solo lo scarto, i trucioli, la segatura che sgorbie e bulini lasciano come residuo della lavorazione. Il vuoto tra i grafismi risparmiati: questo è lo xilografo. Tra noi, pochi ormai, che ancora si incide il legno, senza trucchi strani, senza mistificazione, si è soliti considerarci poca cosa, ché se fossimo stati bravi, di certo, avremmo fatto altro. Quindi, ecco, io sono uno xilografo: il resto, che tu chiami eclettismo nella prima domanda che mi hai posto, e che faccio talvolta anche meglio che non lo xilografo, lo faccio per dovere.

Thanatos, 2016 xilografia

Oltre che incisore sei anche il grafico della rivista «ALAI» e delle edizioni Il Muro di Tessa, altre tue illustrazioni e copertine, solo per ricordarne alcune, sono state realizzate per l’editore Henry Beyle di Milano, per la rivista romagnola «La Piê» e per le edizioni Babbomorto, ma sei anche uno storico dell’arte e un bibliofilo. Parlaci della tua passione per il collezionismo, quanti libri hai e fra questi quali sono i pezzi più rari e preziosi che possiedi?

Nei miei scaffali si mescolano in maniera quasi casuale, testi che trattano di incisione, libri illustrati italiani e inglesi soprattutto. Tutto quello che in qualche modo si lega alla grafica della secessione viennese che ho trovato. Tecnica e storia della tipografia, poesia italiana del Novecento, libri che stanno lì solo per merito della loro copertina. Libri che parlano di libri, ecco questi stanno più o meno insieme così come i testi sulla Scozia. Un altro reparto raccoglie il Giappone, ma è un’area diffusa, che si dirama in maniera poco razionale tra il gruppo di edizioni pregiate (pregiate per me, ma in realtà di pregiato non ho quasi nulla a meno che non decida, in maniera assoluta e arbitraria di dare questo appellativo a cose che più di altre mi fanno salire la glicemia) e l’area dei libri di viaggio. La xilografia è nel reparto incisione, anzi è il reparto incisione. E poi, poi è il caos, e il caos si mescola al caso: in questo ‘caso’ ci sta anche Stevenson. Non gli ho ancora attribuito una sede: è una collezione lacunosa, per titoli e qualità degli esemplari. Ho la prima edizione italiana in volume di Dr. Jekyll e molte delle traduzioni del libro che più d’ogni altro credo abbia condizionato la letteratura dell’orrore e del mistero dei nostri giorni. Jekyll mi affascina perché racconta di un esistere fatto di sottrazioni e inclusioni: di un possibile male che aleggia su qualunque cosa e la pervade ma anche dell’impossibilità di semplificare tutto con un manicheismo rassicurante… ma scusate ho divagato… Dovrei provare a stilare un catalogo. La cosa mi spaventa più dell’arrivo dei marziani. Non che l’idea non mi piaccia, anzi, un catalogo serve a giustificare una raccolta. A fare luce su di un coacervo di materia magmatica. E poi la classificazione, l’enumerazione, la collazione, la descrizione di ogni esemplare: una vera onanistica immersione nella profondità della bibliofilia. Ma… temo questa concupiscenza, temo il soffermarmi sul dorso d’una brossura, sulle pagine vellutate di un nonnulla stampato da chissà chi e di perdermi per sempre.

 

Le tue incisioni raffigurano prevalentemente la figura umana e in particolare quella femminile. Sono volti e corpi pervasi da un erotismo contenuto eppure imprescindibile, figure dalla sensualità malinconica, come sospese fuori dal tempo, spesso giovani, ma è come se di quella giovinezza volessero esprimere più la caducità che l’armonia. Sembrano suggerire un’idea di bellezza a volte contorta, dolente, inquieta, che richiama alcune opere di Schiele e di Klimt. Si tratta solo di suggestioni legate ad un determinato immaginario artistico o risentono di una forte matrice autobiografica?

All’inizio, quando ho incominciato, i soggetti femminili erano un pretesto per ricercare un segno, una linea. Ma era vero anche il contrario: la linea era finalizzata alla rappresentazione del corpo femminile facilmente identificabile in pochi tratti. Quando scrivo di un artista, per formazione, parto sempre dalla sua biografia, questo perché sono convinto che comunque sia, anche nell’artista più visionario − spesso negli artisti più visionari proprio − e meno ancorato ai fatti quotidiani, il quotidiano entri nei processi mentali con una virulenza speculare ai soggetti rappresentati. Eppure mi verrebbe da dire che nei miei disegni non vi sia più autobiografia di quanto io ne metta in tutto ciò che faccio. Spesso ho disegnato figure di donna dalla sensualità malinconica, più che giovani come dici tu, forse senza una età definita. Come indefinita vorrei fosse la loro ubicazione nel tempo e nello spazio e la nudità induce alla indeterminatezza, ma anche alla concentrazione. Tutto è evidente nel nudo, tutto si esplicita e non permette di distogliere l’attenzione dal significante perché esso si identifica indissolubilmente con il significato. Nel nudo come nella sensualità, come nell’erotismo più spinto e nella pornografia, ci si trova di fronte a domande a cui ognuno risponde in una diversa maniera ma a cui si deve rispondere per non cadere nel tranello del tabù. Tutte le donne che ho disegnato esistono nella realtà e nel mio immaginario erotico; sebbene esse possano apparire quasi eteree sono fondamentalmente trasposizione bidimensionale di “carne e sangue”. Che la mia idea di bellezza, come di eleganza, sia “frigida” (e cito qui Goffredo Parise), ma lo è stata quella di molti incisori e disegnatori, basti guardare a Rops, Khnopff, e Berdsley, mi pare sia chiaro. Spesso guardandole con una lente deformante cerco figure letterarie e le carico di significati simbolici e di mistica: così protagonista delle incisioni e dei disegni può essere una Salomè che si nasconde dietro le fattezze, a esempio di un viso greco che conosco per esperienza o che ho incontrato nel sogno. O che è diventato un sogno passando attraverso il reale.

Ila e la ninfa, 2016 xilografia

Di recente hai scritto una monografia su Emilio Mantelli che per te è un’importante figura di riferimento. Quali altri artisti, sia classici che contemporanei, hanno maggiormente contribuito alla tua formazione?

Una domanda a cui credo nessuno vorrebbe rispondere, questa. Mantelli di cui appunto mi sono occupato e continuo a occuparmi, ha certamente un ruolo di rilievo nella mia ricerca estetica. Egli sa sottolineare masse tratteggiate da poche linee, risparmiando alla sgorbia i contorni delle figure: la sua sintassi parte da una figurazione liberty per anticipare forse altre correnti. La morbidezza del segno e la compostezza formale, dove si leggono in trasparenza gli ornamenti di un Beardsley e una vaga adesione ai dettami di quella secessione viennese sentita più che imitata, sono la scuola alla quale ho attinto e ancora in qualche modo attingo. Poi devo citare Felice Casorati e la sua poetica del sublime. Il linguaggio fiorito e minuto di Francesco Nonni. E soprattutto negli ultimi mesi la xilografia policroma e il camaieu di Adolfo De Carolis che usa, ora sovrapposizioni, ora campiture piene, ora sottili tratteggi. E poi la pittura e la poetica preraffaellita di Giulio Aristide Sartorio che ci introduce al lavoro tipografico e decorativo di Edward Burnes Jones e di riflesso ad una altro grande incisore svizzero ma attivo in Inghilterra come Charles Ricketts il quale riscrisse la storia dell’illustrazione xilografica. E poi Aubrey Beardsley forse il più grande genio del suo tempo e, azzardo, di sempre, il quale trasformò in pochissimi anni il modo di disegnare, quasi tracciando una linea di demarcazione: su di lui, vi invito a leggere il libro di Giuseppe Virelli, appena pubblicato, che esplicita queste affermazioni così decise. È evidente il mio collegamento a un certo disegno di Egon Schiele, così come sono vicino alla rappresentazione dolente e alla spigolosità delle figure di Adolfo Wildt ma mi fermo per non annoiarti.

 

La xilografia è senza dubbio una forma d’arte anacronistica. Cosa pensi dell’arte contemporanea?

Nulla è più anacronistico, come dici tu, della xilografia e sceglierla è in controtendenza con l’esasperata velocità alla quale tutto vorrebbe adeguarsi, Un amico, xilografo a sua volta, pochi anni fa mise in calce al suo catalogo la data 1915 che era sintomatica di un certo qual sentire interno alla disciplina che spesso, poi, pone fuori dal mercato poiché gravata di quella lentezza che impone il legno. Oggi la xilografia, violentata dalle ricerche informali del secondo dopoguerra e divenuta spesso rifugio in una ingenuità banale, sta ricercando tramite l’impegno di pochi incisori, una personale coraggiosa avanguardia in cui è proprio il ritorno alla tecnica la vera novità, l’attualità. Dell’arte contemporanea, forse dovrei parlare bene perché anche io in qualche modo, potresti asserire, ne faccio parte. Ma io non mi considerò un artista, e non lo dico per falsa modestia, faccio troppe cose disordinatamente per esserlo, così cito a memoria Adolfo De Carolis e chiudo ricordando le sue parole profetiche: nel Rinascimento gli artisti minori seguivano le forme vecchie, inconsapevoli o pavidi per provare una nuova via. Oggi è cambiato tutto e i mediocri sono gli innovatori.