BARRY LYNDON
(Il creatore di sogni)
liberamente tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray
riduzione teatrale e regia di Giancarlo Sepe
con Massimiliano Auci, Sonia Bertin, Mauro Brentel Bernardi, Gisella Cesari
Silvia Como, Tatiana Dessi, Vladimir Randazzo, Federica Stefanelli
Giovanni Tacchella, Guido Targetti, Pino Tufillaro, Gianmarco Vettori
foto di Salvatore Pastore
scenografie e costumi Carlo De Marino
muische a cura di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team
luci di Guido Pizzuti
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro La Comunità
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Prima che si iniziasse a imprecare di ‘ascensori sociali’, peraltro sempre fermi al piano terra e comunque di scarsa capienza, la figura (pragmatico-letteraria) dell’arrampicatore sociale (intraprendente o indolente) o dell’onesto individuo ansioso di mettere a frutto le proprie competenze (traendone la “giusta mercede”) aveva ispirato un rilevante filone della narrativa anti-romantica alla cui vetta vorrei porre il “Bel Ami” di De Maupassant (datato 1885), ma le cui ‘ricadute’, i cui modelli di negligente aspirazione (al benessere, all’arrivismo sociale) furono presto riconoscibili in almeno due capisaldi delle narrazioni ‘non larmoyant’, peraltro già consapevoli della finitezza e della ‘poca qualità’ per cui l’essere umano deve fare i conti con le incognite del (personale) destino.
Per quanto mi compete, ho sempre apprezzato la singolare “comunanza” di due libri apparentemente agli antipodi, quanto ad ésprit letterario e poco esaltanti pregevolezze dell’animo umano: “Una vita” di Italo Svevo 1892, già intriso di disagio freudiano e di impossibilità di riscattare la propria condizione di “mediocrità” (in quella sorta di borghesia pingue e mercantile cui Alfonso Nitti vagheggia di “essere ammesso”); e “Mastro don Gesualdo” di Verga, dato alle stampe nel 1889, ove i canoni del verismo impongono al cocciuto esemplare dell’emancipazione contadina (verso il casato di una nobiltà fantasmatica, in rovina) il compromesso “proto borghese” del matrimonio riparatore, a lenimento di una eburnea fanciulla (irripetibile la Bianca Trao di Lydia Alfonsi nello sceneggiato di Vaccari), “posseduta e svergognata” da altro bellimbusto. Pur di darle dignità di moglie, di madre, in cambio di elevazione verso le ‘piccole sfere’ che fanno il bello e il cattivo tempo della misera umanità in quel di Vizzini.
Pensate che la ‘stia prendendo alla larga’? A me non pare, poiché il romanzo di Thackeray che fa da ordito a “Barry Lyndon” altri non è che uno dei primi antenati di quegli individui ‘senza qualità’ (senza per forza scomodare l’enciclopedico Musil), di cui l’antieroe reso famoso dal film di Kubrick (1975) è solo uno dei primi partecipanti all’ardua maratona del “farla franca” per mezzo di varie Franche, Nore, Lady Lyndon (e altre ‘passeggere’) che dovrebbero garantirgli piaceri d’alcova, saccocce suonanti e sostanziale irresponsabilità del proprio srotolare da una magagna all’altra. E poiché, come è noto, “a tutte le sconfitte e fallimenti si reagisce…tranne all’ultimo”, anche la scorribanda terrena, vagamente picaresca del mitomane irlandese inventore (mitomane) di tortuosi alberi genealogici, avrà amara fine. Senza che ciò dia alla narrazione (al film, allo spettacolo che ne desume Giancarlo Sepe) alcuna valenza ammonitiva o precettistica.
Riattualizzandosi invece il lontano parere che Pier Giorgio Bellocchio, direttore di “Quaderni Piacentini”, diede dell’opera di Kubrick: “Elogiato per il suo versante plastico-figurativo, per il virtuosismo delle sue raffinatezze estetiche, ambientazioni, tecniche di ripresa (luce naturale, persino lumi di candele, n.d.r.), Barry Lyndon non è opera formalista ma ‘discorso’ ben più complesso ove protagoniste sono le leggi e le relazioni economiche, le strutture sociali e relativi poteri contrattuali, le inesorabili barriere di classe”. Contro le quali sia Svevo, sia Verga (più cinico e ‘ottimista’ il dissipato De Maupassant) erano ben coscienti – verismo o psicanalisi a parte – di essere disarmati narratori. E, aggiungerei, anche profeti d’ogni vanagloriosa, attualissima egolatria presente.
Nonostante baldanze, duelli, incontri furtivi, fughe da Casanova spiantato, ciò che più intriga Giancarlo Sepe sono o sarebbero “gli stati d’animo amplificati da suggestive musiche, mentre le parole sono rese da un gioco teatrale composto da sfondi di carta, in un’atmosfera…spero…di forte suggestione visiva”. Favola nera, quindi, storia di una caduta all’incontrario sul più bello della scalata al benessere classista, cui si agglutina (rispetto ad altri spettacoli del regista) una maggiore attenzione per la struttura, la coralità, la parcellizzazione della ‘parola drammaturgica’ Esaltata dalle musiche, dai contrappunti che mirano a bilanciare gli elementi emozionali dei personaggi. Lasciando che la parabola si dipani (fra sunto e crasi del racconto) attraverso le tinte fosche o luminose delle sequenze e dei ‘cambi a vista’, sostenuti di volta in volta da musiche di Mozart, Haendel, Paisiello, Schubert, Bach, Ligeti, e altri; cui si aggregano i contemporanei Chieftians, Aphex Twin, Johansonn, Rachel’s e le cantate in lingua dei padri celtici raccolti da Alan Lomax.
Unica differenza rispetto all’originale (che si coglie nelle eccessive ribalte o avanzate in proscenio del personaggio): nell’accurata sintesi di Giancarlo Sepe (meno di 90 minuti in platea) è “il protagonista a raccontarsi in prima persona, nel suo peregrinare in una notte allegorica che tutto accoglie ed accetta”. Alla stregua di una beata a-moralità che “tutto accoglie e tutto accetta”, affinchè nessuna opportunità vada persa – non essendogli (da principio) necessaria alcuna dimestichezza con i modi raffinati, le miserie antesignane di nobiltà cui la madre, influenza infausta, vorrebbe consegnarlo “vestendolo damerino” da villan ripulito.
Va precisato: non v’è ironia e nemmeno giudizio etico in questa ulteriore dimostrazione ‘d’amor cinefilo’ (edotto, senziente o da bastian contrario) che il regista offre al pubblico dei suoi estimatori. Semmai una sospensione di giudizio, una incessante baraonda scenico-espositiva della quale, talvolta, si perde il filo delle connessioni logiche e delle dinamiche fra ‘sudditanza e potere’ nell’ambito dei rapporti amorosi, siano essi primeggiati da uomo o da donna. Pur sempre nell’esercizio di un vano potere che condurrà, chi più chi meno, alla catastrofe di “personaggi e di epoca” Persistendo in noi la sensazione che aver dilatato la peculiarità del ‘teatro intimo’ di Sepe, dallo spazio raccolto, quasi eucaristico de La Comunità a quelli più dispersivi e prestigiosi dell’Argentina di Roma prima e della Pergola di Firenze poi, tolga qualcosa (di inespiantabile) alla complicità mimetica, ‘corporale’, fra spettatori ed interpreti, nelle decine e decine di serate trascorse nella gloriosa saletta di via Zanazzo a Trastevere.
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Ps “Barry Lyndon” si inserisce nel percorso di Stagione “Dalla pagina alla scena”, nutrita sezione sul rapporto fra letteratura e scena: dall’inglese Katie Mitchell che riversa nel suo immaginario teatral-tecnico-cinematografico La Maladie della mort della Duras, nella quale anche un’altra giovane artista, Elena Arvigo, si inabissa, scegliendo Il Dolore; Emma Dante affronta Basile, scegliendo la novella La scortecata, mentre Valter Malosti compone nientemeno che una trilogia di donne ottocentesche composta da Senso di Boito, Anna Karenina di Tolstoj, Giro di vite da James. Fanny e Alexander completano il loro personale viaggio nella tetralogia di romanzi di Elena Ferrante, Storia di un’amicizia; Federico Tiezzi dirige Lucrezia Guidone come Signorina Else dal racconto di Schnitzler. Si passa poi alle pagine al maschile: Antonio Latella si misura con Torquato Tasso e la sua “favola pastorale” Aminta; del nipote di Collodi, Paolo Lorenzini, Bisordi riversa in scena il racconto Sussi e Biribissi per gli spettatori piu piccoli; il palermitano Davide Enia adatta per la scena il suo romanzo Appunti per un naufragio che diventa L’abisso; Lo Sguardo oltre il fango, dramma musicale, ispirato al romanzo di John Boyne Il bambino con il pigiama a righe.