Sulle ali del Gabbiano di Čechov sorridiamo della nostra nullità
CATANIA – Ennesima edizione, nella stesura integrale del 1895, prima della censura zarista, dell’intramontabile Il Gabbiano di Anton Čechov, opera tra le più amate e rappresentate, anche se al suo debutto fu accolta freddamente. Tra tutte ricordiamo la rappresentazione nel 1948 di Strehler al Piccolo Teatro di Milano e l’operazione altamente innovativa nel 2001 del grande regista lituano Nekrosius.
In questa trasposizione, firmata da Sciaccaluga, l’opera, tra sussulti edipici ed espedienti come il teatro nel teatro, notoriamente evocativa dell’Amleto shakespeariano, offre la sua modernità sul filo di un’apparente tradizione. L’opera morbidamente si dilata in un ritmo lento, tra atmosfere indolenti, oniriche, accese da guizzi umoristici che scardinano i cliché, aprendo lo sguardo alla visione compatta di un’umanità delusa. Siamo davanti a una insospettabile e lucida descrizione della vita e dell’arte attraverso l’arte, che mostra impudicamente le fragilità dei personaggi, senza condannarli, ma facendoli vivere nella loro precaria condizione umana. Il dramma si ammanta di compatimento ironico, lasciando che i vizi e le virtù delle vite in scena si sgranino pacatamente, lasciandosi dietro una scia di rimpianto per ciò che avremmo voluto e potuto essere, una scia di destini ineluttabili condite da afrori nostalgici. “Il Teatro della Crudeltà di Čechov è il più umano che io conosca” dirà Sciaccaluga nelle sue note di regia.
Una comunità variegata accoglie nel tranquillo ambiente agreste Irina, famosa attrice, vanesia, egoista e insensibile, accompagnata da Trigorin, suo amante e scrittore. Il figlio di lei, Konstantin, anche lui scrittore, ambisce a fama e gloria, ma la madre lo disprezza gettandolo nella disperazione. Innamorato della giovane Nina, a sua volta affascinata e sedotta dall’anziano scrittore, Konstantin tenterà il suicidio. Nina, dopo una dolorosa parentesi con Trigorin, ritornerà, delicata metafora, con le ali spezzate al suo ambiente agreste, come il gabbiano, qui assurto a simbolo dell’innocenza violata, che volava inconsapevole sul lago, ucciso dal cacciatore. Il gabbiano impagliato rivive nell’ultima scena, totem di vite tranciate, al centro della comunità ancora una volta riunita. Al centro del Gabbiano si pone a mio parere la condizione dell’arte e dell’artista, stretti tra convenzioni e incomprensioni.
La campagna, il lago, gli ambienti domestici, in ribalta insieme ai vistosi e dichiarati apparati tecnologici, affiorano dalle pregevoli scenografie apparentemente tradizionali, che esaltano il pregio del testo integrale e la valida prova di un cast tra cui spicca l’intensa Elisabetta Pozzi, ben affiancata dall’ensemble coeso e in felice sintesi. Accurati i costumi e le scene, attenta ai dettagli e all’insieme la regia che offre un target dal taglio elegiaco, delicatamente sospeso tra sogno e realtà, fittamente intrecciati.
IL GABBIANO
di Anton Cechov
versione italiana Danilo Macrì
regia Marco Sciaccaluga
scene e costumi Catherine Rankl
musiche Andrea Nicolini
luci Marco D’Andrea
con Elisabetta Pozzi, Francesco Sferrazza Papa, Alice Arcuri, Federico Vanni, Stefano Santospago, Roberto Alinghieri, Elsa Bossi, Eva Cambiale, Roberto Serpi, Andrea Nicolini, Kabir Tavani
produzione Teatro Stabile di Genova
Al Teatro Verga di Catania fino al 24 Marzo