Piccole (grandi) cilecche d’autore
Lavia “inonda” di se stesso Pirandello – Sepe dà in appalto Cechov a Massimo Ranieri (flaneur da salotto)
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Accade raramente – e se accade, è degno di nota – che due stimati artisti di teatro riescano, in una (sola) settimana, stando alla programmazione romana, a smarrire se stessi e (sino a controprove) il loro pubblico, con due pastrocchi scenici di non facile esegesi. Entrambi sfasati e pretenziosi.
Proviamoci.
Completando il suo breve trittico dedicata a Luigi Pirandello (“Sei personaggi” e “L’uomo dal fiore in bocca”, entrambi ‘metabolizzati’ e di buon livello espressivo), Gabriele Lavia si imbatte nei “Giganti della montagna” che, appartenendo alla trilogia dei ‘miti’ e del ‘visionario’ senza vincoli di raziocinio (“Lazzaro, “La nuova colonia”, redatti da un Agrigentino consapevole di essere vicino alla fine terrena), consente all’attore e regista di profondere quanto di meglio e quanto di peggio si sommano, e coesistono, nel suo emerito curriculum. Cominciamo dal meglio: da ciò che ci è parsa una pertinente messa a punto.
Ovvero la capacità di assegnare al “pensiero” e alla “poetica” di Pirandello consonanze e divergenze che allontanano la sua opera omnia da insorgenti ipotesi di cedimenti e simpatie nichiliste. Se serve almeno ad una sola causa, “I giganti della montagna” dimostra che il primato dello scrittore e drammaturgo matura e si estrinseca “solo” in ambiti di pessimismo raziocinante, iperbolico, onirico (come nel caso di questo suo dramma incompiuto).
Diversamente dal nichilismo che – per vocazione, missione, definizione – sanziona la morte della speranza, del Padreterno, di un ‘senso compiuto’ o ‘teleologico’ da assegnare (per via filosofica) all’ubi constitam della presenza umana nell’universo (che, fra l’altro, forse “è sogno”, stando a Matrix e Calderon De La Barca). A chiare lettere: con tali ambiti Pirandello non ha ben poco da spartire. Poiché nella sua concezione pur amarissima, tribolata, disillusa dell’esistenza, il pessimismo della mente lascia minimo spazio alle fantasmagorie del cuore o, se preferite, di breve agonia, popolati di folletti campestri e Ciclopi delle terre di Trezza. Alterazione, sublimazione dei sensi che, nei “Giganti”, si fa cosmogonia simbolica, allegorica, vivacissima di una profezia trascurata e spesso dimenticata: quella, secondo cui, verrà il giorno che “maschera e volto”, “l’apparenza e l’essenza” non avranno alcuna ‘necessità’ nel coesistere in pubblico: scisse, ingannevoli e in reciproca, schizoide ostilità.
L’incandescente apologo degli Scalognati, della Contessa Ilse, del Mago Cotrone (illusionista di rango, non meno di Prospero nella “Tempesta”), del teatro-nel-teatro mediante la disastrata messinscena de “La favola del figlio cambiato” fa quindi da supporto tecnico-drammaturgico all’extrema ratio di un Pirandello che, al momento del trapasso, ama (come accadde a Borges, a Pessoa…) essere visitato dai personaggi a lui più cari e che lo accompagnarono, come angeli propulsivi, nell’asperità del “tragitto” quiggiù.
Materia, quindi, delicatissima e friabile, paragonabile alla shakespeariana “materia dei sogni”, che Gabriele Lavia riversa (purtroppo) in uno spettacolo fragoroso, congestionato, esteriorizzato lungo l’oggettivo tripudio di coloriture (e nostalgie) da ‘macchia’ mediterranea, pullulante ‘apparizioni’ maggiori, minori o di puro ornamento, ad eccezione della Sgricia di Nellina Laganà e del formidabile team di fantocci animati come nelle rapsodie delle supermarionette, tramandate da Craig e dalle avanguardie russe. Alle quali l’attore\regista, utilizzando a mo’ di ‘pregnate’ scenografia la sezione diroccata di un teatro sopravvissuto ai terremoti della “strafottenza civica”, assegna significanze claustrali e sacramentali (quindi nessuna ‘quarta parete’, nessuna interruzione fra praticabili e platea).
Recitando poi a briglia sciolta, e in quasi ogni scena, sul solco (o esplicito omaggio) di un Cotrone dal passo malfermo e dalla voce rotonda, sincopata ‘rapito’ al Turi Ferro degli anni d’oro (peraltro parodiabile ma non imitabile), che interpretò quel ruolo per Giorgio Strehler due anni dopo essersi rivelato nelle baldanze del contadino Liolà, ‘pansessuale’ e prolifico sullo sfondo delle leggende di Sicilia: Come dire? Dal Kaos vero a quello di circostanza, baraonda di lingue e minacciosi rombi da bombardamento aereo, fra le mura (centenarie, accoglienti, che tanto hanno “visto”) del Teatro Eliseo.
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Di Figlio perduto, ritrovato e di nuovo perduto ci si attarda (senza principio ordinatore) anche nel “Gabbiano” che Giancarlo Sepe propone al Teatro Quirino, scommettendo sulla presenza, anzi sull’intrusione scenica di un Massimo Ranieri, giunto motu-proprio al rango di grande attore drammatico. Ancora una volta siamo costretti ad usare il sestante sella Storia e delle diversità poetiche. Poiché quel che in Cechov (nel 1896) era fremito, fastidio melanconico, sentimento del “disagio di vivere” in un habitat dell’animo (e del paesaggio) “ove il dramma è già accaduto” (e quel che si racconta è, in sostanza, lo stoicismo dei protagonisti nel dovere di “continuare comunque” e metabolizzare l’impotenza ad agire nella monotonia dei giorni)…. tutto ciò, senza motivo o per “ghiribizzo” d’artista, fa uno strabiliante (strampalato) balzo in avanti di oltre sessant’anni, situandosi dalle parti della rive gauche parigina, in pieno effluvio di canzoni d’autore, pene d’amore perduto e vanesio, nuage e refrain esistenzialisti egregiamente divulgati da poeti-chansonnier come Leo Ferrè, Gilbert Becaud, Charles Aznavour, Serge Lama (quello che si auto commiserava con “malade…je suis vraiment malade” causa il perseverare in delusioni sentimentali).
Per non tediarci a vicenda, e servendosi del “Gabbiano” a mo’ di pretesto, la serata di Sepe e Ranieri (pensoso flaneur da salotto) serve soltanto a quest’ultimo, essendogli offerto di esibirsi in un recital canoro vocalmente possente, ma artefatto nel suo ésprit di interprete ‘poliedrico, immenso e generoso’. Con dosi aggiuntive di presunzione e disinvoltura, dal momento che gli sparsi frammenti della vicenda cechoviana fanno da anonime ancelle ai virtuosismi dell’one man show: cui Sepe assegna compiti di demiurgo e testimone scomodo “ma necessario”. Delegato a sezionare, interloquire, interagire (ospite invadente) con alcune sequenze delle umane disgrazie, equamente ripartite fra Nina, aspirate attrice, Kostantin, aspirante scrittore (poi suicida) e Irina, aspirante regina madre e attrice in disarmo per infelice amore dedicato all’indegno Trigorin, aspirante letterato di irrisorio successo.
A che titolo (tanta cortesia per l’ospite)? Ovviamente, non è dato sapere… Lasciando a noi il disagio elargito da un regista amato e rinomato del calibro di Sepe (esperto in ‘contaminazioni intelligenti’ con altre forme espressive, dal cinema alla video arte), disponibile ad avallare il “sonoro” pastrocchio, in anodino bianco e nero di costumi, immenso pianoforte-catafalco al centro pista e quinte di baluginanti ventose, a fondo scena. Per un “Gabbiano” non abbattuto in volo, ma sin dalla nascita.
Sipario (ma dopo due interminabili ore)!