Il burattinaio gretto di Moni Ovadia. ‘Liolà’ al Teatro Biondo di Palermo

Il burattinaio gretto di Moni Ovadia. ‘Liolà’ al Teatro Biondo di Palermo

Con Liolà, spettacolo di solido impianto e di magnetiche atmosfere che risucchiano in un caleidoscopio di luci, colori, voci e movimenti, si chiude la stagione del teatro Biondo che ha prodotto, in collaborazione con il teatro Garibaldi di Enna e del Teatro Regina Margherita di Caltanissetta, quest’originale e riuscitissima operazione artistica diretta magistralmente da Moni Ovadia e Mario Incudine.

Scritta in una delle fasi più feconde e felici della produzione pirandelliana, Liolà è una commedia campestre in cui moduli narrativi e stilemi verghiani, ben presenti nei tipici motivi della roba e della coralità, cominciano ad incrinarsi per accogliere le riflessioni sull’animo umano e le sue più intime pulsioni e quelle su un ordine sociale retto da convenzioni e da apparenze apparentemente infrangibili. In piena guerra mondiale e con il figlio Stefano prigioniero degli austriaci, Pirandello si butta a capofitto nel lavoro traendone quelle soddisfazioni che il privato gli nega e in quest’opera, che lui stesso definisce la più “fresca e viva”, recupera la trama del IV capitolo de Il fu Mattia Pascal inserendovi alcuni tratti caratteriali e il nome del protagonista della novella La mosca.

La riduzione e l’adattamento, effettuati dagli stessi registi e da Paride Benassai, agiscono con grande libertà creativa sul testo pirandelliano, spostando l’ordine delle scene e scrivendone di nuove, cambiando l’attribuzione delle battute (gustoso e assai manipolato per il personaggio nuovo di Pauluzzu, e dunque per la temperie artistica di Benassai, il monologo sui ventagli in origine pronunciato da zà Ninfa) e attingendo con più abbondanza alla novella, dalla quale si importano in blocco alcune sequenze descrittive (quelle sul paesaggio osservato durante il viaggio con la mula verso Montelusa, o quella dei tratti fisici del giovane e bello Liolà, detto “il poeta”), e soprattutto la tragicità di un finale ricontestualizzato (dal contatto con la mosca infetta all’ira vendicativa della donna, entrambe portatrici di lutto) nel quale vengono a cessare l’ambiguità e il dubbio che l’Agrigentino aveva volutamente mantenuto nella novella. E, se apparentemente, in questo gioco di destrutturazione e di ricomposizione, la commedia pirandelliana sembra scolorire e cedere il passo a qualcosa di diverso, in realtà l’Autore è interamente presente, anche attraverso la valorizzazione di alcuni nuclei tematici già presenti in Liolà che avranno ben più ampio sviluppo nelle opere successive, dalla teorizzazione di un’umanità costituita da “pupi” pronunciata da Ciampa ne Il berretto a sonagli al gioco delle apparenze in Così è (se vi pare).

L’artificio verghiano della regressione nel narratore popolare, ancora parzialmente presente nell’opera di Pirandello, nello spettacolo è accantonato a favore del narratore artefice e burattinaio, come dimostrano lo stesso Ovadia, che esibisce appeso al collo un piccolo teatrino di legno, o il pazzo Pauluzzu, che indossa una scombinata armatura da antico paladino. E in questa direzione l’impianto registico cede alla tentazione di seguire una strada più volte tracciata ma di sicura efficacia. Le coreografie di Dario La Ferla impongono, infatti, movimenti da marionetta alle donne ingoffite dai costumi bidimensionali di Elisa Savi che amplificano le forme ad anfora dei corpi femminili per farne quasi rigide sagome scivolate via dalla matita burlona di un vignettista.

Insomma, sono i colori a mutare, ma non la sostanza. Pirandello c’è ancora tutto e la sua voce idealmente risorge e si mescola insieme con quella bellissima di Mario Incudine, dei musici e dei contadini che insieme costruiscono un’opera popolare di grande respiro, ariosa e fresca del dialetto tenacemente voluto e difeso in quanto lingua letteraria e nobile dallo stesso Autore. Nelle intense musiche originali del poliedrico Incudine, il canto di Liolà e dei contadini (la compagnia del Teatro Ditirammu ben diretta da Elisa Parrinello) deborda e invade gradevolmente la scena, le sonorità proposte attraversano la gamma dei sentimenti, schietti o meschini, di un mondo ancora popolato da vinti che, tentando di mutare la propria condizione abbagliati dal miraggio della roba, restano vittime di se stessi o si fanno carnefici e divoratori. Tra tutti il più puro è proprio il trasgressore Liolà, che può godere con facilità dei piaceri carnali ma non ricevere il dono dell’amore, a lui il compito di fare giustizia, di mettere ordine con il suo personalissimo criterio, al disordine voluto dall’avidità e assecondato dall’ipocrisia.

Così, ad essere realizzati, non saranno i piani di zio Simone, restituito da Ovadia come un gretto e cupo anziano attraversato quasi da un malessere esistenziale, né quelli di zà Croce, un’ottima Stefania Blandeburgo che accelera le parole come un treno in corsa pronto a schiantarsi contro verità mal confezionate, né quelli della giovane Tuzza, cui Aurora Cimino presta la giusta dose di opportunismo e di rabbia. La bistrattata giovane moglie, Mita (una giusta Graziana Lo Brutto), può invece riottenere dignità e rispettabilità proprio quando la morale comune avrebbe dovuto privarla di esse.

Così è. Pirandello ci ha insegnato che non esiste una verità oggettiva e se proprio volessimo rinvenirne piccoli sprazzi, saremmo costretti a cercarli nei luoghi abitati da valori incontestabili ed eterni, come nel bellissimo monologo sulla fontana e sul tempo – quel sentimento del tempo che in Pirandello è necessità narrativa – recitato con toccante immersione da una Rori Quattrocchi di grande livello cui spetta il compito di incarnare la maternità intesa come accoglienza, conforto ed educazione alla Vita. Di contro, la Morte, quella capricciosa, che arriva per chi non la vuole e ritarda per chi la invoca, ma che per Liolà, suggerisce il pazzo Pauluzzu, può soltanto essere niente. Questa Morte è ancora canto per chi ha vissuto con il sole e con il vento negli occhi e nel cuore.

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Liolà

da Luigi Pirandello

riduzione e adattamento Mario Incudine, Moni Ovadia, Paride Benassai

regia Moni Ovadia e Mario Incudine

musiche originali Mario Incudine

scene Mario Incudine

costumi Elisa Savi

luci Franco Buzzanca

movimenti scenici e coreografie Dario La Ferla

direzione musicale Antonio Vasta

aiuto regista Alessandro Idonea

personaggi e interpreti

Liolà Mario Incudine

Zio Simone Moni Ovadia

Pauluzzu ’u fuoddi Paride Benassai

Zà Ninfa Rori Quattrocchi

Zà Croce Stefania Blandeburgo

Tuzza Aurora Cimino

Mita Graziana Lo Brutto

Ciuzza Chiara Seminara

Nedda Sabrina Sproviero

Musici Antonio Vasta (fisarmonica)

Antonio Putzu (fiati)

Manfredi Tumminello (corde)

Contadini e popolani Compagnia del Teatro Ditirammu diretto da Elisa Parrinello:

Noa Blasini, Chiara Bologna, Elvira Maria Camarrone, Valentina Corrao, Francesco Di Giuseppe, Bruno Carlo Di Vita, Mattia Carlo Di Vita, Noa Flandina, Alessandra Ponente, Alessia Quattrocchi, Rita Tolomeo, Pietro Tutone, Fabio Ustica

acting coach personale di Moni Ovadia Sergio Seminara

scene realizzate da Antiche Segherie Mastrototaro di Bisceglie 

si ringrazia Carla Cintolo

produzione Teatro Biondo di Palermo

in collaborazione con Teatro Garibaldi di Enna / Teatro Regina Margherita di Caltanissetta