La Capinera catanese prende il volo… si libra nell’aria… ma per poco
Le capinere sono piccoli uccellini dalla testa bruna che nelle composizioni artistiche metaforicamente mostrano un femminino mortificato. Dalle malinconiche note di tango delle appassionate “capinere”, donne perdute dell’Arizona, alle strazianti monache cooptate nei conventi, i destini di neglette, misere vite diventano occasione di racconto di storie vere, affascinanti nella loro crudeltà e nel vago sapore di attualità, da cui prima il Manzoni e poi il Verga trassero piccoli ritratti densi di pietà che ispirarono varie arti. Trasposizioni teatrali, cinematografiche riproponevano così il tema scottante della difficile condizione femminile, come le monacazioni forzate, tristissime, che la sensibile penna di Alessandro Manzoni immortalò ne “I promessi sposi” nell’indimenticata monaca di Monza e il Verga nel breve romanzo “Storia di una capinera”. Di quest’ultima opera letteraria il regista Zeffirelli fece nel ’93 un film omonimo che non sfondò il crinale della cinematografia, non avendo la forza della scrittura verghiana, sobria e asciutta nella sua scabra ricognizione, pur ammantata di melodrammatici sentimenti e sentimentalismi.
Farne un melodramma moderno, pur avendo la storia tutti i numeri per assurgere a tale progetto è certamente un compito impegnativo che deve affrontare molti step. “La capinera”, opera prima, ne percorre alcuni, con buona volontà e sincera ispirazione, ma con risultati discutibili. La nerbatura dell’assetto musicale in cui è innestato un testo modesto, a fronte di tanta grandezza, si configura con un andamento monodico, lento e vagamente ripetitivo che scivola a poco a poco nel prolisso, su cui a tratti emergono variazioni connotative, come l’incipit del Colera che irrompe nel vocìo della pescheria catanese, spezzandone la vivacità, o l’allegria delle converse che vengono fatte uscire dal convento per sfuggire al mortifero morbo.
In una Catania che sbuca modestamente dai fondali e da scarne rievocazioni della festa di Sant’Agata, si dipana il triste destino di Maria, giovane novizia orfana di madre, confinata a sette anni in convento dalla matrigna, con figlia a carico da sistemare, complice un padre debole, poi tardivamente pentito. La disgraziata fanciulla, ritornata alla famiglia rifugiatasi in campagna durante la drammatica epidemia, con toccante entusiasmo e incantevole candore scoprirà le bellezze della vita e dell’amore per il vicino di casa Nino,ricambiato, ma purtroppo fidanzato della sorellastra Giuditta. Scoperta nella sua passione la poverina sarà costretta a ritornare in convento dove, pazza di dolore al pari di una sua disgraziata consorella, morirà , dopo aver assistito dietro le grate al matrimonio di Nino con la sorella, e dopo avere subito la sua disperata monacazione.
Commovente e truce, l’opera si apre e si chiude con la Morte, portando i segni di una retorica pregnante, che l’andamento musicale quasi da musical non sempre risolve, appiattendo la tensione drammatica e offrendo poche opportunità di dispiegamento delle risorse canore dei validi interpreti, messe in mostra solo in alcuni momenti. La regia dal ritmo lento di Dante Ferretti coadiuvato dallo scenografo premio Oscar Geoff Westley, si appanna man mano, con momenti di silenzio incomprensibili e imbarazzanti. Gli innesti di dichiarata attualizzazione, come le figure danzanti in parallelo con i loro alter ego, o l’abbondanza delle percussioni, non bastano a dare un taglio moderno all’opera lirica, un genere che comunque rimane assolutamente affascinante se collocato nel suo tempo, a mio modesto parere. Suddivisa in brevi scene, la lunga, sofferta vicenda si propone in vari movimenti coreografici, dando vita ad un’opera in dichiarata chiave moderna che si allontana dagli schemi classici, senza tuttavia assurgere pienamente a stilemi propri e dove il canto lirico non si impone e non rivendica la sua specificità.
Il punto di forza dell’opera, in prima mondiale, preceduta da un consistente battage pubblicitario, doveva essere l’impegno profuso dal compositore Gianni Bella e dai testi di Mogol, definiti liriche (anche se il debole libretto risulta di Fulcheri), due firme della canzone anni ‘70, e dalle belle e giovani voci dei cantanti, in primis citiamo la dolce e intensa Maria di Giulia De Blasis, nel desiderio-speranza di proporre un prodotto esportabile, segno di rinnovamento della lirica classica.
Ai posteri l’ardua sentenza.
La Capinera
Melodramma moderno in due atti
Liriche di Mogol
Libretto di Giuseppe Fulcheri
Arrangiamenti, orchestrazioni ed elaborazioni di Geoff Westley
Musica di Gianni Bella
Prima esecuzione assoluta
Personaggi e interpreti
Maria Cristina Baggio
Giulia De Blasis (11, 13, 15 dicembre)
Nino Andrea Giovannini
Alessandro Fantoni (11, 13, 15 dicembre)
Il padre di Maria Francesco Verna
Salvatore Grigoli (11, 13, 15 dicembre)
La matrigna di Maria Sonia Fortunato
Giuditta Sabrina Messina
Il colera Carlo Malinverno
Giuseppe De Luca (11, 13, 15 dicembre)
La badessa Lorena Scarlata
Prete Alfonso Ciulla
Danzatori Doriana Barbato, Chiara Filardo, Martina Mora,
Aldo Nolli, Benedetta Roghi, Sara Tomesani
Orchestra e Coro del Teatro Massimo Bellini
Direttore Leonardo Catalanotto
Maestro del coro Luigi Petrozziello
Regia, scene e costumi Dante Ferretti
Coreografo Valerio Longo
Collaboratore alla regia Marina Bianchi
Assistente ai costumi Giovanna Giorgianni
Nuovo allestimento
Al Teatro Massimo Bellini di Catania fino al 18 dicembre