La natura del vuoto. ‘Il Nullafacente’ al Teatro Niccolini di Firenze

La natura del vuoto. ‘Il nullafacente’ al Teatro Niccolini di Firenze

Miyamoto Musashi, celebre spadaccino giapponese, scriveva nel suo “Libro dei cinque anelli:

Ku’ significa ‘vuoto’; ‘ku’ è ciò che non si può conoscere. Naturalmente il vuoto è il nulla. Praticando la forma, si percepisce il vuoto. Questa è la natura di ‘ku’

Michele Santeramo ci mostra, attraverso il personaggio da lui scritto e interpretato, un vuoto denso di significati, un’azione votata al nulla con dedizione pari a quella dimostrata da un monaco zen nella meditazione. Il nullafacente è intento a passare le giornate adoperandosi per dover fare il meno possibile, cercando di ridurre all’osso le attività quotidiane e opponendosi agli stimoli del mondo esterno che lo vorrebbero operoso e attivo; così la sua vita passa fra una visita al mercato per raccattare il sostentamento di base e spostare di qualche giorno la soglia della fame, la -non- assistenza alla moglie malata (Silvia Pasello), le dispute con il fratello di lei (Francesco Puleo), con il padrone di casa ossessionato dall’insolvenza dell’inquilino (Vittorio Continelli) e con il medico rivale in amore (Tazio Torrini).

Seguendo le vicende una domanda si fa largo nello spettatore: la causa della nullafacenza del protagonista a cosa sarà dovuta?

Prima possibile risposta è la paura di affrontare il mondo, il terrore di accettare l’ineluttabilità del tempo e le perdite che questo comporta. Un comportamento che possiamo ritrovare in una “piaga sociale” moderna, quella degli Hikikomori, i reclusi in casa, per lo più giovani, che scelgono di non uscire più dalla propria stanza, sentendosi rifiutati dalla società e che quindi si recludono nelle proprie case come per rimanere in eterno protetti da un surrogato del ventre materno.

Seconda possibilità è che il nullafacente segua una sorta di ideale cinico votato alla ricerca del piacere nella semplicità e nell’autarchia, come Diogene, il filosofo che si dice vivesse in una botte. Rifiuto della morte o accettazione della vita, due possibilità antitetiche come il vuoto che nel contempo divide e unisce tutte le cose. Il nostro protagonista dichiara: “la morte è ogni volta che perdete tempo”; ci affanniamo lavorando ore e ore ogni giorno per guadagnare soldi, soldi che spenderemo per permetterci attività che ci porteranno via altro tempo. La felicità è in quello che riusciamo a guadagnare oppure è nel semplice esistere, qui e ora, in un attimo eterno in cui passato e futuro si fondono nel momento presente?

Il testo di Santeramo riuscirà a mettere in dubbio le certezze che ritenevate acquisite e a farvi porre interrogativi sul modo in cui vale la pena spendere la propria esistenza, il coinvolgimento è assicurato dalla sapiente regia di Roberto Bacci che pone i contingentati spettatori di poco più in alto rispetto alla scena posizionata di fronte alla ribalta, gli attori che attendono il proprio momento seduti subito davanti alla prima fila.

La scenografia è essenziale: un tavolo, qualche sedia, una poltrona, un bonsai; proprio il bonsai, testimone silente dei soliloqui del protagonista e simbolo della dottrina zen, ci ricorda che senza le dovute cure e sottoposto ai maltrattamenti di uno stile di vita frenetico, perderebbe la sua forma composta e quindi, la sua essenza.

Un atto unico di un’ora e dieci minuti che vi farà perdere la cognizione del tempo: sospinti dalle battute, presi dalla storia e travolti dalla forza del dramma vi sembrerà che sia durato il tempo di un sospiro e al contempo una vita, quella che ancora non siete riusciti a rivendicare. Ma niente paura, c’è tutto il tempo che abbiamo, per usare le parole di Santeramo.