“Salvador Dalì – La ricerca dell’immortalità” di David Pujol / Ritratto dell’artista più fantasioso, irruento e imprevedibile del ‘900
Pittore, scultore, creatore di scenografie teatrali e cinematografiche, disegnatore di gioielli e di moda, ideatore di oggetti surreali come il famoso “Occhio”. L’artista fu anche scrittore, saggista, sostenitore del metodo interpretativo “paranoico-critico”. Dalì fece della sua stessa vita e della sua immagine pubblica (che finiva col non distinguersi da quella privata) un’opera d’arte in perpetua evoluzione, assumendo atteggiamenti provocatori e costruendo un personaggio articolato su programmatiche eccentricità e contraddizioni stridenti.
ROMA – La Grande Arte al Cinema inaugura il nuovo cartellone della stagione con un biopic che celebra Dalì (1904-1989) in prossimità dei 30 anni dalla morte, ossia il film evento “Salvador Dalí. La ricerca dell’immortalità”. Attraverso una storia suddivisa in capitoli, il film propone un viaggio esaustivo nella la vita e le opere di colui che è stato “il miglior uomo in grado di rappresentare i sogni”, secondo Alfred Hitchcock, “e replicare il mondo del subconscio“.
Il regista David Pujol guida gli spettatori, assieme a Montse Aguer Teixidor, Direttrice del Museo Dalì, e Jordi Artigas, Coordinatore delle Case Museo Dalì, in un percorso che ha inizio nel 1929, anno cruciale per l’artista sia dal punto di vista professionale che personale, fino alla sua morte, nel 1989. Nel 1929 l’artista si unisce al gruppo surrealista, suscitando le ire del padre che non accetta un cambiamento così radicale e tenta di allontanarlo da Cadaqués, luogo dove Dalì trascorre le estati soleggiate con la famiglia prima della rottura.
Nello stesso anno l’artista incontra Gala, una donna che comprende il suo talento e le sue ossessioni, una musa che lo ispira e che lo completa. Il montaggio segue le varie fasi della biografia del pittore, arrivando a un tour completo e affascinante grazie all’assemblaggio di filmati, foto d’epoca, immagini dei dipinti surrealisti dell’artista, corredati da commenti narrativi, restituendo agli spettatori l’opportunità di conoscere da vicino la vita di Dalì, sia come pittore attraverso la suggestione che emana dai suoi quadri accentuata dalla maestria tecnica maneggiata con padronanza assoluta, sia come persona turbata dalle fragilità allucinatorie di una mente “paranoico-critica”, contestualizzando il suo agire sul crinale degli avvenimenti storici.
Abbandonandoci allo scorrere delle sequenze prendiamo coscienza di trovarci immersi in un cerebralismo surreale che, anche per merito della regia di Pujol, ci permette di ritrovare negli archivi della memoria i brani musicali stravinskijani che piacevano a Dalì.
“ Io non credo nella mia morte – ha detto Dalì in una intervista – No. Non credo nella morte in generale, e ancora meno nella mia morte. Io mi godo ogni singolo istante della vita. Pur credendo che esista Dio, al momento non ho fede e temo che quando morirò non ci sarà paradiso per me. Il mio trionfo sta nell’essere riuscito a non farmi schiacciare dalla banalità dell’esistenza contemporanea. E credo di aver raggiunto l’immortalità. Il mio obiettivo che giustifica il successo, nutre il mio eterno genio.”
Sono trascorsi quasi 30 anni da quel 23 gennaio del 1989 in cui Salvador Dalì si spense e venne sepolto nella cripta del teatro-museo Dalì a Figueiras considerato il suo testamento artistico. Proprio qui, nella Torre Galatea, Dalí decise di trascorrere gli ultimi anni della sua vita in una dimensione più intima con studi volti a comprendere il caos e a carpire l’agognato segreto dell’immortalità. Seppur vecchio e malato, ma lucidissimo, nella sua residenza al castello di Pùbol, dove ormai sopravviveva sempre più appartato da quando la morte della moglie lo aveva lasciato nello scoramento, ricordava i momenti felici della sua lunga vita insieme a Gala.
Salvador Dalì ha amato Gala con uno slancio totale. Ne fu figlio, amico, servo, compagno. E lei fu per lui madre, musa, complice, soprattutto l’incarnazione del potere immaginifico dell’Eros, perché mente e corpo femminile capace di suggerire trame e visioni.
Dai dipinti dove Gala è stata ispiratrice, sua modella e altro ancora, intuiamo come Lei abbia avuto un ruolo centrale nella vita dell’artista. Dalì ha scritto: “La Leda Atomica è il dipinto chiave della nostra vita”. L’alchimia che venne da quell’incontro fatale tracciò il destino dell’uomo e del genio. Come un incantesimo occulto.
E’ ancora vivido, in chi scrive, il ricordo della esauriente esposizione “Il Surrealismo di Dalì in mostra a Roma” con sue opere esposte al Complesso del Vittoriano dal marzo al luglio 2012. Consideravamo – ammirando quei dipinti – come Dalì abbia rappresentato la quintessenza dell’artista totale, celebre soprattutto per le immagini bizzarre e suggestive delle sue opere costituite da onirici luoghi/non luoghi ideati ad arte, attraverso una sedimentazione cromatica, una fermentazione surreale rivelanti i più riposti meandri della sua mente creativa.
Anche adesso in questo film documento di David Pujol vengono ricostruiti i diversi profili speculari dell’artista con la sua pittura visionaria di sogni, incubi e ossessioni, ma anche il genio con le sue invenzioni e l’uomo con le sue bizzarrie: atteggiamenti stravaganti fuori dagli schemi che furono spesso causa di grande irritazione tanto per i suoi detrattori, quanto per coloro che amavano la sua arte. Infatti, talvolta, i suoi modi eccentrici ed esuberanti rubarono la scena al suo reale talento artistico e al valore intrinseco delle sue opere.
Storicamente la letteratura artistica ci suggerisce che l’Arte Surrealista scaturì da “L’interpretazione dei sogni”, 1899, di Sigmund Freud, fondatore e padre della psicoanalisi da cui Dalì attinse creatività eidetica. E queste teorie freudiane e in seguito lacaniane, lo plasmano come pittore surrealista la cui affermazione gli restituisce l’equilibrio necessario.
Il dipinto “La persistenza della memoria”. noto anche con il titolo “Gli orologi molli”, è uno dei più enigmatici di Dalì, probabilmente coadiuvato dall’influenza di André Breton, poeta, saggista e critico d’arte francese con cui inventa gli “Oggetti surrealisti a funzione simbolica”. Mostra una veduta della baia di Port Lligat al crepuscolo e l’artista vi inserisce degli orologi rotondi deformati come sul punto di liquefarsi, e nei quali l’abbinamento del motivo dell’ora diversa riconduce senza dubbio a teorie bergsoniane. Gli orologi si liquefanno, il tempo diventa liquido obnubilando le temporalità interiori. Solo uno di essi mantiene intatta la sua forma: tuttavia esso è ricoperto dalle formiche, che nella pittura del pittore spagnolo simboleggiano la consunzione. L’artista in un suo saggio apparso nella rivista “Minotauro” nell’inverno del 1935 riassume come “la relatività soggettiva del tempo possa essere la dimensione delirante e surrealista per eccellenza”.
Dalì scenografo
Nel 1937, a causa della Guerra Civile Spagnola, Dalì si trasferisce negli Stati Uniti, dove tenta di inserirsi nel mondo dello studio system hollywoodiano degli anni Trenta; ma invano, in quanto il target cinematografico consisteva nel produrre film adatti al grande pubblico. Proprio per questo Dalì lavorò quasi esclusivamente per collaborazioni circoscritte all’ambito della scenografia: disegnò il cartone Destino di Walt Disney, realizzò alcune locandine per famose pellicole e bozzetti preparatori.
Dalì rimase così affascinato dall’attrice teatrale, cinematografica e sceneggiatrice americana Mae West da concepire la possibilità di usare i tratti del suo volto per progettare un vero e proprio spazio nel quale allestire un appartamento. Era il 1934. Per la realizzazione di questa stravagante idea, l’artista dovette aspettare fino agli anni settanta, quando il progetto venne portato a compimento del Teatro Museo Dalì di Figueras. Con l’architetto catalano Oscar Tusquets, finalmente Dalì poté realizzare l’idea di quarant’anni prima trasformata in una struttura tridimensionale abitabile che oggi arreda e rappresenta una delle maggiori attrazioni del museo. Le labbra dipinte vennero trasformate nel divano imbottito, rivestito di stoffa vermiglia, al centro della stanza. I capelli, poi sono trasformati in sontuosi tendaggi; gli occhi in due paesaggi assolutamente verosimili.
Negli anni della sua giovinezza (anni ’20 – ’30) il cinema stava diventando particolarmente popolare e Dalì era interessato alla cinematica: dai cortometraggi cromatici dipinti fotogramma per fotogramma di Georges Méliès, antesignano autore di fotomontaggi surreali, fino a “Perfido incanto” e “Thais”(1916) di Anton Giulio Bragaglia regista saturo di fotomontaggi poliespressivi, che teorizzava: “occorre liberare il cinema come mezzo di espressione per farne lo strumento ideale di un nuovo linguaggio artistico, immensamente più vasto e agile di tutte le forme d’arte esistenti”. Dalì, come Bragaglia, aveva capito che attraverso la tecnica del montaggio poteva scomporre e ricomporre l’universo secondo i meravigliosi capricci della mente e del sogno, cosa che già l’artista praticava nei suoi dipinti. Un cinema sperimentale capace di oopporsi alla “putrefacción” di quello narrativo e sentimentale basato sulla letteratura d’appendice.
Nel 1924 viene pubblicato il primo Manifesto Surrealista, in cui Breton (teorico della corrente artistica) dimostra l’interesse da parte dei surrealisti per il cinema, definito un occhio artificiale capace di riprendere uno spazio virtuale in cui immagini e realtà si fondono.
Dalì in quel periodo, 1925, si concede una vacanza lavoro a Cadaqués il più bel villaggio turistico di Spagna, insieme a Garcia Lorca che quell’estate iniziava a completare il suo testo teatrale Mariana Pineda, e ne leggeva dei brani a Dalì proponendogli la realizzazione delle scenografie, mentre il pittore era intento a ultimare i suoi dipinti per la sua prima esposizione in novembre alla galleria d’arte Dalmau di Barcellona. La ballata Mariana Pineda, che racconta di una quindicenne eroina esiliata dal franchismo, rivitalizzò, grazie al testo teatrale di Lorca, il teatro spagnolo. E’ un dramma in versi terminato da Lorca a Granada l’8 gennaio 1925 e dato in lettura a casa di Salvador Dalí a Cadaqués. Lo spettacolo teatrale andò in scena per la prima volta nel 1927 a Barcellona, con scenografia e abiti disegnati da Salvador Dalí e con l’attrice Margarita Xirgu nel ruolo della protagonista.
Nel 1929 Dalì si unisce per affinità elettiva al gruppo di Breton, in quanto attratto dal modo in cui i surrealisti esprimevano il reale funzionamento del pensiero; soprattutto rimase affascinato dal codice delle libere associazioni. Il cinema era considerato da Dalì il mezzo per fare incontrare le dimensioni del sogno e della realtà.
Per un Chien andalou tra il 1928 e il 1929, Dalì pubblica Guia Sinoptica: Cinema (Letteralmente Guida Sinottica, quale agevole collocazione in colonne parallele di argomenti di cinema e tavole illustrative) e, successivamente, Documental: Paris, in cui esalta la macchina da presa come mezzo adatto a proporre immagini dirette, provenienti dall’inconscio, e dove critica il cinema sentimentale, a favore di un cinema intenso e acuto.
Ma il passo più significativo della carriera cinematografica di Dalì è sicuramente dato dalla collaborazione con il regista emblematico e avanguardista Luis Buñuel. Insieme realizzarono Un chien Andalou, uno dei film cardine del cinema surrealista. I due artisti presero spunto dai loro stessi sogni: nel lungometraggio, infatti, si possono rintracciare sequenze scandite da associazioni concettuali libere, caratterizzate da immagini veloci e in continua trasformazione. La dimensione onirica e psicoanalitica, l’istinto sessuale e la tensione erotica sono alcuni dei temi trattati.
Un Chien Andalou si caratterizza per il susseguirsi di immagini che intendono scandalizzare e insieme disorientare chi guarda. Il lungometraggio, nella sua doppia funzione, scatena reazioni istintive di attrazione/repulsione, che trasportano alla origini del sogno. Dalì e Buñuel sembrano abbandonare la logica lineare della narrazione a favore del disorientamento, dato soprattutto dall’utilizzo del montaggio come strumento di sovversione.
Dopo questa controversa pellicola, Dalì collaborò nuovamente con Bunuel, scrivendo alcune delle scene presenti ne L’âge d’or, 1930 Un film che si oppone ad ogni istituzione per il suo forte impatto visivo e il violento intento dissacrante. Le immagini visionarie del pittore si fondono alla perfezione con l’espressione dell’ inconscio del regista in un film che, apparentemente insensato, riesce a mantenere una sua coerenza interna per tutto l’aggrovigliato svolgimento ed esplica ancora meglio la forte concezione anticlericale ricorrente in tutto il film con un preciso riferimento a Le 120 giornate di Sodoma di De Sade.
Per queste correlazioni omologhe in Dalì, linguaggio pittorico e linguaggio cinematografico, sembrano un continuo mascherarsi e compenetrarsi; la qual cosa fa sì che le caratteristiche esteriori della sua arte possano urtare, e che le apparenze parossistiche risultino alquanto strane ai detrattori dell’artista. Contro le accuse calunniose Dalì a sua difesa ha scritto: “ L’unica differenza fra me e un pazzo è che io non sono pazzo. Tutt’al più, nel mio lavoro uso l’imitazione della pazzia, tipica nella nostra epoca “paranoica”; centrata su temi di persecuzioni e di grandezza, metodo basato sull’associazione interpretativo-critica dei fenomeni deliranti”. In queste dichiarazioni Dalì apre uno spiraglio su quello che in futuro sarebbe diventato il “cinema di smarrimento”.
Tra le sue più note collaborazioni occorre ricordare quella con il regista Alfred Hitchcock, il quale incaricò Dalì di realizzare le scene oniriche del film Io ti salverò!. Fu uno di quei rari momenti in cui le tre forme d’arte dal respiro più popolare si unirono, rappresentate da tre personalità eccellenti del tempo, a lavorare insieme a qualcosa che poi passò alla storia. Tre linguaggi ben amalgamati, Musica, Cinema e Pittura, unirono Rósza, Hitchcock e Dalí, e tale unione venne valorizzata dalla presenza interpretativa di Ingrid Bergman e Gregory Peck come attori protagonisti.
Nel 1948 Salvador Dalí, di rientro dal lungo esilio volontario negli Stati Uniti, viaggiò in Italia per immergersi nel classicismo di Palladio e Bramante ma, soprattutto, alla ricerca di Anna Magnani, che riteneva perfetta per interpretare il suo film neomistico “El carretón de carne”, Il carretto di carne, che aveva appena scritto, in cui una donna si innamora di una carriola dalle caratteristiche umane.
Ma a Roma, attraverso Coco Chanel, Dalì conosce Luchino Visconti che, reduce dai “Giorni di gloria” sull’esperienza della Resistenza, vuole uscire dagli angusti confini del “non realismo o neo realismo” per ritrovare la “fantasia, completa libertà spettacolare” sulla scena, con la commedia shakespeariana “Come vi piace”.
Ed è a sua volta alla ricerca di uno “scenografo eccentrico, un mago”, capace di evocare l’atmosfera onirica e leggera dell’opera, per un colossale allestimento.
La commedia, con le scene e i costumi di Dalì, andrà in scena il 26 novembre del 1948 al Teatro Eliseo di Roma. Salvador Dalí disegna e realizza modelli bellissimi, trionfo barocco spagnoleggiante in un paesaggio bucolico, arcadia neoclassica disseminata di elefanti con zampe di insetti-giraffe, pecore vive, scarpe-scoiattoli ai piedi degli attori. Tra questi, Rina Morelli, Ruggero Ruggeri, Vittorio Gassman, Paolo Stoppa e un giovanissimo Marcello Mastroianni, al quale Visconti offre il ruolo di “un signore al seguito del Duca”. E che non esita a lamentarsi con il regista per il senso di “ridicolo” dei costumi disegnati da Dalí: “Sembro una prostituta con questo parruccone di riccioli biondi”, protestava Mastroianni, non comprendendo che quell’allestimento era un compendio di grande illusioni ove la verità si mescola al camuffamento e alle menzogna, generandosi proprio per confusione ed osmosi e inducendo, con humour e ironia, al sorriso surrealista.