‘Il prigioniero coreano’ di Kim Ki-duk: la cruda realtà delle due Coree

‘Il prigioniero coreano’ di Kim Ki-duk: la cruda realtà delle due Coree

 

Ci troviamo in Corea del Nord, nello specifico in un villaggio rurale, dove Nam Chul-woo, un povero pescatore, lavora giorno dopo giorno, finché la sua barca, unico mezzo di sostentamento per sé e la sua famiglia, ha un guasto al motore. Il pescatore nordcoreano, a causa dell’avaria del mezzo rudimentale, oltrepassa il confine, ma non abbandona la barca. Quindi si ritrova, spinto dalle correnti, nelle acque della Corea del Sud dove viene fermato e interrogato sui motivi che lo hanno portato fin lì. Da quel momento in poi la vita dell’uomo, dedita al lavoro e alla famiglia, si trasforma in una prigionia: continui interrogatori; violenze psicologiche, come il riscrivere più volte le sue azioni in un certo periodo della sua vita, scontri fisici.

Il tutto finalizzato a cercare delle prove per dimostrare ad ogni costo che l’uomo non è un pescatore, ma una spia. Da parte della sicurezza sudcoreana c’è un’impellente esigenza di trovare un nemico da punire o, qualora non si riesca a identificarlo come tale, perseguire con modalità sadiche la redenzione, per così dire, di chi giunge in Corea del Sud accidentalmente e ‘convertirlo’ a uno stile di vita capitalistico, ripudiando la precedente esistenza.

Nam Chul-woo non cede alla tentazione e, addirittura, durante i tragitti in macchina, chiude gli occhi come segno di rifiuto nei confronti di quella realtà, anche perché conscio che, nel caso riuscisse a tornare a casa dai suoi affetti, le autorità nordcoreane lo interrogherebbero sulla sua permanenza in terra nemica. Per convincerlo a non tornare in patria, la sicurezza sudcoreana arriva ad abbandonare Nam Chul-woo per le strade caotiche di Seoul, con la speranza che il pescatore possa desistere dal desiderio di riabbracciare i suoi affetti, attratto da un vita basata sul benessere apparente. In realtà questo vagare smarrito per le vie, in cui è obbligato ad aprire gli occhi, diventa un mezzo per apprendere le forme della crisi dell’abbondanza antitetiche rispetto alla sua esperienza di vita; in particolare quando incontra una ragazza che si prostituisce per aiutare economicamente la sua famiglia.

Nella prigionia del pescatore, l’unica figura positiva è il giovane Oh Jin-woo che, nonostante sia un agente della sicurezza sudcoreana, rispetta Nam Chul-woo in ogni occasione, sostenendo la sua innocenza fino al punto di scontrarsi con i suoi superiori. Il ragazzo incarna in pieno quella gioventù che con il buon senso, la cultura e il rispetto del prossimo alimenta la speranza di un mondo migliore, dove la violenza venga rinnegata.

Dopo le pressioni da parte del governo nordcoreano, il pescatore viene rilasciato, ma il ritorno in patria, seppur incorniciato da una calorosa accoglienza e una stampa plaudente, in realtà è solo una facciata: nuovamente viene interrogato, questa volta dalla sicurezza nordcoreana. Cambia solo il prepotente di turno, ma la sostanza resta la stessa: continui interrogatori; violenze psicologiche, come il riscrivere più volte cosa avesse fatto in Corea del Sud, percosse.

Dopo il controllo della sicurezza, Nam Chul-woo può finalmente riabbracciare la sua famiglia, ma ormai è un uomo completamente devastato dalle violenze, senza più certezze né sponde interiori, conscio che da entrambi i fronti viene percepito come un individuo sospetto.

In questo caos esistenziale, l’uomo vorrebbe tornare alla sua routine, ma non può più prendere la barca, unica fonte di sussistenza, perché gli è stata revocata la licenza. Tuttavia egli non obbedisce al diniego e sale in barca perché desidera intensamente tornare alla propria vita. La crudeltà stolida del Potere non glielo consentità. Pagherà infatti con la morte la sua disobbedienza.

Un film avvincente, toccante, che incolla per tutto il tempo lo spettatore allo schermo su cui scorre senza filtri la cruda realtà di un territorio diviso, dove sembrano imperversare soltanto diffidenza, ricerca smodata di un nemico da punire, o un malcapitato da indottrinare. Viene offerto un quadro in cui non esiste il confine fra parte giusta e parte sbagliata, bensì due carnefici che vogliono imporsi e sopraffare il Nemico, reale o immaginario: in fondo, lo si deduce già dal titolo, Il prigioniero coreano, in cui non si specifica da quale Stato provenga l’uomo, visto che sono entrambi i Paesi a spogliarlo della dignità umana.

Le inquadrature, in cui si nota un ampio lavoro di progettazione, sono atte a valorizzare i volti, la sofferenza del pescatore da una parte, e la prepotenza del generale di turno dall’altra. Interessanti le riprese del peregrinare di Nam Chul-woo nella confusione di Seoul. Le immagini traballanti sono una chiara rappresentazione dello stato emotivo di chi, abituato a una tranquilla vita rurale, si ritrova improvvisamente in un contesto metropolitano alienante ed estraneo.

SCHEDA FILM

Regia: Kim Ki-duk

Attori: Ryoo Seung-bum, Lee Won-gun, Kim Young-min, Choi Guy-hwa

Genere: Drammatico

Soggetto: Kim Ki-duk

Sceneggiatura: Kim Ki-duk

Fotografia: Kim Ki-duk

Montaggio: Park Min-sun

Musiche: Park Young-min

Costumi: Lee Jin-sook

Scenografia: An Ji-hye

Distribuzione: Tucker Film

Nazione: Corea del Sud

Anno: 2018

Durata: 114 minuti