La dittatura della fatuità. ‘Ocean’s Eight’ di Gary Ross
La stagione cinema termina com’era iniziata, utilizzando il genere, o i generi, per sovvertire con leggerezza e fruibilità alcuni stereotipi. Più affascinante ed estremo Atomic Blonde, più aderente ai canoni narrativi dell’heist movie Ocean’s Eight, appena uscito nelle sale.
Eppure c’è qualcosa di eretico, nella sceneggiatura scritta da Gary Ross e Olivia Milch, che si muove sotto la superficie e viene portato alla luce dal gruppo di splendide interpreti. Qua e là, senza dare troppo nell’occhio, come si trattasse di suggerimenti subliminali. Rabbia e malinconia tenute costantemente sotto controllo, soprattutto.
In un mondo dove la gestione materiale del potere resta nelle mani degli uomini, pur mostrati in pieno decadimento cognitivo, otto soggetti ex-centrici di sesso femminile formano una squadra eterogenea quanto coesa per compiere la rapina del secolo durante il blindatissimo Met Gala di New York, annuale fiera delle vanità riservata alle celebrities non meglio identificate, inchiodate al loro vuoto irredimibile da Olivier Assayas in Personal shopper.
Sono a volte solo voci fuori campo, come il giudice che interroga Debbie (Sandra Bullock) prima di deciderne la scarcerazione, oppure insetti unidimensionali, bozzetti umani che sfiorano il ridicolo nella loro presunzione, come i molti addetti alla sorveglianza, i funzionari di banca preposti alla custodia di preziosi monili nei caveaux, gli ex-amanti sleali e fatui, arricchitisi sulla pelle delle loro vittime sacrificali. O addirittura assenze incombenti e stolide, come il marito della ricettatrice Tammy; e Sarah Paulson, nello schizzare questo personaggio con una vastissima gamma di mezzitoni, supera forse tutte le altre. Fa percepire tutta la metodica pazienza che serve a Tammy ogni giorno per sopportare un ménage familiare che si intuisce assai grigio, e un figlioletto (maschio) petulante quanto esigente. Il magazzino che riempie di merce rubata, raccontando ai congiunti di averla acquistata su eBay, diventa il suo spazio di libertà e di riscatto. Difficile non avvertire l’ombra di una delle figure più celebri create da Patricia Highsmith: la Edith del Diario, assalita da momenti di buio che la fanno sentire ‘strana’.
Nascono dall’amarezza reattiva, dalla marginalità sociale a cui è un dovere verso se stesse ribellarsi, anche i ‘caratteri’ delle altre. Dalla stilista fallita Rose (Helena Bonham Carter), che maschera la disperazione per l’imminente bancarotta e la consapevolezza delle proprie inadeguatezze creative sotto i toni e le mises da illustrazione di Alice’s Adventures in Wonderland, alla giovane, sfrontata, hacker di colore ‘Palla Nove’ (Rihanna), depositaria di un sapere tecnologico che nel mondo dei ‘normali’ non può condurla in nessuno luogo, poiché non è stato acquisito in una delle università della Ivy League. Persino la successiva adesione al piano di Daphne (Anne Hathaway), attrice famosa invitata al Gala, assume la forma di un percorso conoscitivo di sé, di una riflessione a voce alta sulla solitudine avvertita per la prima volta, e sul desiderio di far parte di una trama collettiva.
Dalla grande attrice solista che è, Cate Blanchett scava una nicchia, una capsula mnemonica, mantenendo la sua Lou all’interno e all’esterno della traccia narrativa. Interagendo mentre si guarda interagire, in un perfetto (dis)equilibrio estetico. Risulta la più destabilizzante e inquietante, perché in grado di scardinare persino gli intenti programmatici del film. Non teme il kitsch, visto che riesce a trascenderlo. E’ la donna nuova: sangue freddo, nessun timore della solitudine, comunicazione ridotta all’essenziale, poche illusioni, uno scetticismo di fondo, la libertà assaporata per mezzo delle lunghe corse sulla moto, interrotte da qualche sosta ai distributori di benzina self-service.
Il montaggio, essenziale in questo tipo di film, non fa mai cadere la tensione. Mancano invece eros e un’adeguata colonna sonora, ed è un vero peccato.