La boxe, la televisione e Gilles Deleuze
L’incontro del secolo, così fu definito il match tra Cassius Clay (Muhammad Ali) e George Foreman, valido per il titolo mondiale dei pesi massimi, e disputatosi a Kinshasa, nello Zaire, il 30 ottobre del 1974. Di sicuro fu un grande spettacolo, feroce e umano, come solo la boxe sa essere, ultimo sport arcaico a resistere a tutti i cambiamenti epocali. Ma per gli spettatori presenti allo stadio lo spettacolo, il gesto sportivo e la violenza dei colpi furono uguali a quelli visti in Tv?
Sicuramente no. La distanza fra ring e platea impedisce di beneficiare appieno dell’evento, vissuto dal vivo solo in alcune delle sue componenti sopra indicate, il gesto sportivo e la violenza dei colpi. Lo spettacolo, intenso come possibilità del nostro sguardo di posarsi per intero sull’avvenimento, è stato aggiunto solo da un mezzo tecnologico, la televisione. E come? Sicuramente, non attraverso un asettico uso di telecamere puntate sul ring a riprendere fenomenicamente l’avvenimento. Ma, in modo geniale, con una maestria registica televisiva che non ha niente da invidiare alla grande arte cinematografica, ma che di essa, anzi, è propriamente figlia.
L’inizio del collegamento Tv, in campo lungo, trasmette allo spettatore l’ansia dell’imminente combattimento, con i corpi che si scaldano come motori, ancora integri e già pronti a consumarsi nell’evento. Suonato il gong di apertura, appare subito chiaro il ruolo da protagonista della telecamera, che fa il match molto più dei due boxeur, i quali saranno su quel ring solo grazie alla sua presenza. Molto più che sui colpi che si scambiano Alì e Foreman, il cineocchio punta subito sugli sguardi dei due protagonisti, che vengono sempre più scrutati e inseguiti fino alla fine dell’incontro.
L’alternarsi di piani medi e primi piani, figure intere seguite da campi e controcampi, regala allo spettatore la conseguenza dei pugni che i protagonisti si infliggono, ogni sguardo ripreso in contemporanea al colpo sferrato anticipa drammaticamente l’esito del gesto successivo. Chi guarda partecipa intensamente al match, soffre come chi prende i pugni perchè è lì a “vedere” la sofferenza sui volti dei due sfidanti. E non è solo la violenza dei colpi ricevuti dai pugili a turbarci ma anche, e soprattutto, l’alterazione dei loro visi, la volontà di non darla vinta all’avversario, il non mostrarsi scossi alla platea.Tutto ciò umanizza i contendenti facendoceli sentire pari a noi, che li consideriamo prima della sfida come idoli irraggiungibili.
E’ questa progressiva e inesorabile traslazione-trasfigurazione di noi in loro che ci fa percepire sempre più forte l’impatto dell’immagine sui nostri occhi, con l’impossibilità conseguente di non poterli distogliere dall’avvenimento, come catturati da una condizione cui non possiamo più sottrarci. Smettiamo di parteggiare, se mai l’avessimo fatto prima, perchè noi, gli spettatori, siamo ormai entrambi i combattenti, immersi non più nel match da ammirare ma nella sofferenza, che diventa tremendo spettacolo vissuto, a richiamare quell’immagine “icona” di cui tanto ha scritto, per nostra fortuna, Gilles Deleuze nel suo imprescindibile saggio “L’immagine-movimento”.