Il gioco combinatorio di Todd Haynes. “La stanza delle meraviglie”, in concorso al Festival di Cannes 2017
Il tema è quello della fuga formativa, alla ricerca di sé e del mondo, incontro alla meraviglia dell’arte e della vita intesa come narrazione incessante, come continuo incrociarsi di sentieri apparentemente distanti. Esistere diventa in questo film tratto dal romanzo Wonderstruck di Brian Selznick, ed è nella realtà di ogni giorno, una germinazione di storie interconnesse.
L’avventura di una bambina sorda dalla nascita, Rose, che nel 1927 evade dall’atmosfera severa e ottusa della casa paterna per cercare nei teatri di New York la madre divinizzata, una celebre attrice del muto, si interseca con quella del piccolo Ben, che ha appena perso l’udito a causa di un fulmine e la madre, amatissima ed elusiva, in seguito a un incidente stradale. A 50 anni dalla prima vicenda, quella di Ben ne ripercorre specularmente la traccia. Sempre a New York, ma nel 1977, il ragazzino segue un labile indizio trovato su un segnalibro nella speranza di conoscere il padre ignoto, una figura indistinta persa nella reticenza della madre.
Senza dubbio un’opera raffinata, visionaria, che porta alle estreme conseguenze alcune soluzioni tecniche di Carol (avvalendosi della collaborazione del compositore Carter Burwell e di quel virtuoso del montaggio che è Affonso Gonçalves), come le soggettive mentali create attraverso dettagli esemplari e sfocature dell’immagine, senza però riuscire a riprodurre una magia forse irripetibile. Haynes cade anzi nel gioco puramente formale, a causa dell’insistito gusto miniaturista e crepuscolare che affiora ovunque, e di ricercatezze stucchevoli. Possiamo citare, per esempio, le prospettive manieriste dei diorami e il proliferante cabinet of curiosities presenti nel Museo di Storia Naturale di New York.
Coinvolgente e ironico, invece, è l’omaggio al cinema muto di Victor Sjöström, con tanto di sequenze melodrammatiche, ricostruite in un nebbioso b/n d’epoca. In questi meravigliosi frammenti, che da soli rendono imperdibile il film e vanno ad accostarsi alla sezione ‘londinese’ di I’m not there, Julianne Moore giganteggia, dispensando alla Mater Dolorosa di Lillian Mayhew, percossa dalla pioggia battente mentre attraversa un rado bosco tentando di proteggere il piccino stretto al seno – un braccio levato verso la furia delle intemperie o, chissà, verso qualche divinità crudele –, una potenza tragica che, nello stesso istante in cui si manifesta, viene destrutturata grazie alla distanza consapevole e incredula di cui poche attrici sarebbero state capaci, forse nessuna.
Pochi minuti dopo, durante l’incontro in camerino con la figlia Rose, Lillian Mayhew esprimerà tutta la futilità e superficialità, la mistificazione illusoria, del concetto stesso di finzione, trattando la bambina come un seccante intralcio. E viene in mente un altro dei personaggi esemplari di J. Moore, l’attrice autoreferenziale e disadattata di Maps to the Stars, che le valse il Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes 2014.
Intensi e sinceri anche i due piccoli protagonisti Oakes Fegley e Millicent Simmonds, vista anche nel recente A quiet place con Emily Blunt, toccanti ed essenziali nella costruzione interiore di un mondo senza suoni, in cui l’assenza di rumore, persino quello della propria voce, se da un lato si traduce in isolamento sociale e difficoltà di comunicazione, dall’altro aumenta la capacità di concentrazione e osservazione dei particolari di un universo combinatorio imprendibile e imprevedibile.
Purtroppo nel finale Haynes si mette a inseguire con visibile affanno la ricomposizione del puzzle emotivo-temporale, e solo Julianne Moore, ancora lei, questa volta nei panni di Rose anziana (nonna di Ben), impedisce agli ultimi 20 minuti del film di crollare disastrosamente nel conformismo mieloso. Bastano impercettibili movimenti delle labbra, una sfumatura melanconica nel sorriso, un riflesso di consapevolezza negli occhi, e l’atteggiamento del corpo da piccolo uccello solitario durante una passeggiata, a cancellare ogni sospetto di artificio, inverosimiglianza o accomodamento un po’ troppo edificante.