Le vertebre di Aranada. ‘Nereide incantata’ di Anna Di Mauro, Algra Editore
La poetessa bracca la sua ninfa marina dai capelli verdi – frutto della mitopoiesi popolare – come l’Io narrante di Caproni insegue la Bestia sotto gli androni della notte, nell’intrico delle selve. E le asparizioni del cangiante, elusivo animale, non altro che tracce di un sé infinitamente moltiplicato in ansiosa caccia di una definizione che sempre sfugge, si accostano idealmente ai muti enigmi di Anarada (Oreade o Nereide spuria, claudicante, uscita dal mito eppure contaminata di modernità fatiscente). Lo dichiara la stessa autrice: di anime solo due:/una la sua/l’altra la sua che la osserva. Cerca riflessi della propria identità, o corrispondenze, nelle infinite mutazioni della figura mitologica, e rinviene il momento supremo e indeterminato in cui qualcosa di speciale accade (il kairos dei greci) fin nel quotidiano apparentemente più banale, sviluppando questa ricerca attaverso una gamma stilistica superba, dove ogni variazione tende ad assumere anche aspetti musicali.
Le linee sonore essenziali della classicità vanno a innestarsi nella vertigine del manierismo seicentesco (con sconfinamenti nella sensualità panica dannunziana: ah! Questo afrore divino e marcescente/evaso tra venti e maree) per descrivere Aranada dagli occhi verderame che avverte l’odore del sole e avanza/con piedi di bianche conchiglie in un mondo di uomini rapaci e laidi che assumono talora le vesti di inquisitori (im)moralisti. Scolpiti da rughe inflessibili/siedono i Padri. […] Lo dicono i giudici/attenti alle colpe degli altri./Digrignano bocche/scrutano, l’occhio avariato,/additano, scarne le dita.
La narrazione, in questo passaggio, è priva di ornamenti, come nel dipinto di Artemisia Gentileschi Susanna e i vecchioni; in una posizione socialmente e scenograficamente dominante, lo sguardo maschile corruptus incombe. Nel quadro, l’uomo più anziano, col dito alle labbra, intima il silenzio alla giovane. L’altro, che non è vecchio come vorrebbe il racconto biblico bensì un giovane barbuto, sussurra lubrico all’orecchio del primo. Susanna non ha scampo. Sa cosa l’aspetta, se si nega. Ma si nega, ritraendosi angosciata. Artemisia ha capovolto il senso di questa storia, incentrandola non sullo sguardo che viola l’intimità ma sul ricatto del potere, e l’ha trasformata in una scena di sinistra violenza psichica: la composizione verticale dell’immagine, sotto un cielo di minerale freddezza, acuisce l’effetto di minaccia. La stessa sensazione di pericolo ineluttabile che ritroviamo in Nereide.
Eppure, l’elemento che più indelebilmente si incide nel ricordo di chi legge, legandosi al carattere anomalo della ninfa, è il precipitare improvviso dell’intera struttura poetica nella velocità e nella dissonanza della contemporaneità, del crudele nitore del presente, nei repentini squarci d’azzurro e di leggerezza che si aprono tra barche scarenate/indaco e viola.
Mentre Anarada, con ellissi che ricordano la Ortese o la Woolf impareggiabile di Orlando, trascorre di vita in vita, scorgendo laterizi e lamiere ondulate, ciminiere e bave fumose, pali della luce giallastra/tra vicoli e pozze evanescenti e stanchi bidoni grigio perla, la Voce narrante, anch’essa mirto selvaggio, si plasma su ritmi prossimi al rap, con effetti di grande originalità. E, qua è là, sembra acquietarsi porgendo la fronte alla luce dei giorni, insieme ad Aranada che prepara il caffè./L’odore si spande tra case e cortili/azzurri graffiti tremolanti/sul porto ancora illuminato. Consapevole che, anche al supermercato (terzo scaffale a sinistra), il Mito può raddrizzare la curva colonna di vertebre antiche e sfondare le pareti di cartongesso.
luciatempestini0@gmail.com