La bontà quotidiana. “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher
“Le persone gentili sono soldati che vanno in guerra senza armi”: un pensiero tiepido e trepido che Alice Rohrwacher mette al centro del suo terzo lungometraggio Lazzaro felice premiato a Cannes (come il precedente Le meraviglie) per l’originale sceneggiatura e salutato da unanime interesse, oltreché apprezzato per la singolare suggestione di favola del tutto inusuale.
Lazzaro felice si basa su una vicenda esile e strana immersa nel clima arcaico (benché contemporaneo) di una rude comunità contadina denominata “l’inviolata” ove una cinquantina di mezzadri e relative famiglie campano malamente sotto lo strapotere dispotico della bizzosa marchesa Alfonsina De Luna.
Si tratta di una situazione abnorme, poiché dislocata nei primi anni Ottanta in una zona agricola del Viterbese retta a conduzione di mezzadria (nonostante questo metodo fosse stato abrogato) ove i contadini sono soggetti a un’esistenza durissima, socialmente ingiusta come l’obbligo di fornire al padrone parte cospicua dei prodotti della terra. Lazzaro è appunto l’emblema di tale stato di squilibrio, ma ben lontano dall’adontarsi di simile sudditanza si mostra sempre e comunque arrendevole, conciliante con chi ostentatamente lo opprime.
A ragione considerato debole in bilico dal dostoevskijano Idiota e al volterriano Candide, Lazzaro nonostante la propria subalternità, diventa compagno di giochi del figlio dell’autoritaria marchesa, Tancredi. E le cose vanno avanti così per un certo periodo. Fintantoché con imprevedibile cambiamento del racconto la storia dell’“inviolata” si ribalta in avanti di un trentennio catapultando Lazzaro e Tancredi in un altro tempo, in un altro luogo – un ambiente stracittadino, tutto attuale – ribadendo i toni longanimi, decontratti del primo verso il secondo. Tutto ciò col palese intento di prospettare una fantasia tra immaginazione ed estro poetico.
Per dare corpo e senso a questa fiaba eccentrica, ambigua, Alice Rohrwacher modula gli elementi narrativi attraverso la caratterizzazione di personaggi e casi apparentemente incongrui ma nell’insieme evocatori di sentimenti intrisi di prodiga bontà, appunto le gesta quotidiane del “felice Lazzaro”, sempre e comunque gentile con il prossimo, incorrotto e semplice nella sua intoccabile integrità morale. Un santo? Molto meno e molto di più al contempo, pur se risulta ovvio, un tale individuo non è certo di questo mondo.
Per disegnare al vivo questo eccezionale antieroe come i suoi diretti comprimari occorreva una gestione degli attori coerente, omogenea quale quella cui ha fatto ricorso per l’occasione Alice Rohrwacher puntando sui bravi Adriano Tardiolo (Lazzaro), Nicoletta Braschi (Marchesa De Luna), Sergi Lopez (Ultimo), Alba Rohrwacher (Antonia), Tommaso Ragno (Tancredi), ecc. L’esito si dispone così informalmente sullo schermo con i modi insoliti verso un significato aperto. Tanto da richiamare alla mente vaghe analogie col realismo prezioso del cinema di Ermanno Olmi e dei fratelli Taviani.
A suffragio di questa sensazione suonano eloquenti le parole della medesima Alice: Lazzaro felice “racconta la possibilità della bontà, che gli uomini da sempre ignorano, ma che si ripresenta e li interroga come qualcosa che poteva essere e non abbiamo voluto”.