QUEL CHE RESTA DELL’ANNO: CERIMONIE DEGLI ADDII, FANTASMI NEL DESERTO, PROFEZIE ALIENE
Giornale di bordo della stagione cinematografica 2016-17
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Rivendichiamo, senza eccedere, la medesima faziosità esercitata nel “diario minimo” – o per meglio dire resoconto ragionato – della passata stagione. Evitando tuttavia di infierire sui film che abbiamo ritenuto nel corso dei mesi degni della massima deplorazione. Ci riteniamo sufficientemente appagati dalla disaffezione mostrata dal pubblico (segnali di evoluzione? Chissà, vedremo) verso le sempre più anemiche e affannate commedie indigene, incorse in qualche caso in clamorosi fallimenti.
Per rimanere brevemente nell’ambito del cinema italiano, c’è un film (l’unico a nostro parere) che va segnalato, ossia Piccoli crimini coniugali di Alex Infascelli, tratto dal testo teatrale di Eric-Emmanuel Schmitt, nel quale, fin dal ritmo tribale delle percussioni che accompagna il rientro a casa in auto dei due innominati protagonisti (la macchina da presa inquadra il lunotto posteriore e i personaggi di spalle), s’intuisce un’ostilità latente stratificatasi nel tempo, un coacervo silente di rancori, equivoci, invidie, che preme sempre più forte, disegnando rughe amareggiate e sarcastiche agli angoli della bocca, pronto a rompere la membrana del decoro per esplodere e dilagare in delirio a due, in nevrotico duello fisico-dialettico alla Polanski (si pensa più a Carnage che a Venere in pelliccia). Le porte dell’abitazione si chiudono dietro di loro, e si riapriranno solo in pochi momenti sulla scala a chiocciola del palazzo, tangibile e metafisica come un incubo sornione di Dalì. Le finestre appaiono velate da una sorta di nebbia lattiginosa che rende l’appartamento simbolico e claustrofobico, così come l’arredamento sospeso fra pesantezza kitsch, elementi d’antiquariato e dettagli “alternativi” da borghesia intellettuale, mentre corridoi e stanze sembrano mutare struttura e sostanza – e infine dissolversi nell’ombra – man mano che si procede nell’acuminata quanto elusiva istruttoria coniugale cui assistiamo. Lo scontro, o resa dei conti, o finale di partita, comincia in sordina, condotto con sottigliezza dalla coppia Buy/Castellitto.
Il tempo fa sfiorire le anime, prima ancora dei corpi, e sottrae persino l’abitudine all’inferno, quotidiano e in qualche modo consolatorio. L’inferno è un posto caldo, e lì avevo il mio posto, dice la Signora priva di nome cercando di sorridere. Il presente consiste in un finto camino tecnologico che divampa senza scaldare, in abbracci sgraziati che simulano la foia ebbra dei “vecchi tempi”, nella paura dell’altro/a, nella nostalgia di un trasporto che non può più essere rivissuto, ma soltanto rappresentato. Infascelli – che firma un film europeo, molto lontano dal “tiepido velo fangoso” dei melodrammi posticci midcult, dai supereroi suburbani e dalle convenzioni – racconta esattamente l’ineludibilità di questa rappresentazione. L’amore è qualcosa che non si può più raggiungere né modificare, quindi dipendenza e timore della perdita, anzi coscienza della perdita, quando non si traducono in simulazione inane, diventano paradossale tentativo di annientamento fisico dell’altro.
Chiuso lo scarno capitolo suggerito dal (dis)amor patrio, varchiamo la soglia, o il cancello, di più grandiose dimore, passando ad analizzare i tre film che nel 2016-17 sono esplosi come supernove, formando compatte stelle di neutroni, in qualche modo degeneri. Si tratta di Riparare i viventi di Katell Quillévéré, Animali notturni di Tom Ford e Arrival di Denis Villeneuve.
In Riparare i viventi, sentiamo attraverso le palpebre la sottile crosta azzurra del mattino aprirsi sulle prime notti d’amore di due ragazzi, vediamo l’asfalto correre via sotto le ruote di una macchina con la quale tre amici poco più che adolescenti stanno per raggiungere il mare, il loro abbandonarsi all’impulso primario, fisico, della vita; condividiamo la sfida costituita dal surf, l’ebbrezza di percepire ogni muscolo del proprio corpo, di sentirsi immortali, perché tutto abita soltanto nell’attimo, di imparare a prevedere il movimento di onde smisurate, a volarvi dentro, letteralmente, come in un ventre ancestrale, mantenendosi in perfetto equilibrio. Gallerie di acqua blu, in incessante metamorfosi, stordenti, fragorose. Gli inciampi fatali spesso non avvengono sui campi aperti dell’impatto con la Natura, con la sua potenza terribile e vivificante; si verificano durante l’azione banale, ripetuta mille volte, che per questo affrontiamo con disattenzione, e forse con un pizzico di superbia. Il Caso, mai veramente casuale, tende agguati dentro un riflesso di sole sul parabrezza dell’auto, su una strada monotona; utilizza la stanchezza della mente, del fisico, il senso di appagamento derivante da una prova superata.
Basta così poco, pochi secondi, perché un incidente spenga per sempre tutta quella corrente elettrica che lega i neuroni, producendo i pensieri sui quali si edifica la nostra unicità. Un essere vivente diventa all’improvviso un corpo ancora pulsante ma non più vivo, che le persone care non accettano di abbandonare, le cui funzioni vitali di base vengono mantenute attive dalla tecnologia. Di fronte ai tentativi dei medici di spiegare l’irreparabilità della situazione, nessuno all’inizio comprende. Risuonano le domande di chi non vuole capire per non precipitare nel vuoto: cosa si può fare?quali sono le soluzioni, gli interventi possibili? Dunque? Dunque il luogo dove ci muoviamo adesso è l’ultima striscia di roccia e licheni prima del dirupo, non esistono più soluzioni, non c’è la possibilità di alcun intervento. Solo la straziata cerimonia degli addii. Il pianto, le carezze, il desiderio di onorare comunque le spoglie di chi abbiamo amato così profondamente. In fondo, muore anche una parte di noi.
Cosa resta? Il cuore intatto del ragazzo potrebbe salvare la vita di Claire, signora parigina resa quasi inferma da una cardiopatia. Ripararla. Difficile accettare lo smembramento di un figlio, eppure i genitori, dopo un iniziale, comprensibile rifiuto, accordano il permesso. Un chirurgo sensibile farà ascoltare al giovane, durante l’espianto, le sue musiche preferite. Perché rispetto e premure non devono venir meno in nessuna fase della nostra vita, compreso il momento della morte.
La malattia ferma il tempo della vita, che non va più avanti né indietro. Ne riduce progressivamente le dimensioni, ne offusca i colori. Toglie dignità rendendo dipendenti dagli altri. Condiziona le vite degli altri. Claire (impersonata da Anne Dorval con commovente misura, una delle prove più intense della stagione cinematografica; ed è doveroso citare, per lo stesso film, anche Dominique Blanc e Alice Taglioni) per pudore, per non deviare il destino di un’altra persona, ha in precedenza allontanato da sé la giovane concertista Anne, cui era legata da una profonda relazione amorosa. Senza fare parola della malattia, senza dare spiegazioni. La cercherà il giorno prima del trapianto, per confidarsi, per ritrovarla. E la ritroverà, insieme al fragile battito della vita che piano piano riprende il giusto suono.
La dignità umana da conservare a qualunque costo è anche il tema principale di Il medico di campagna di Thomas Lilti , commedia dai toni malinconici e talvolta amari che racconta con delicatezza la storia del dr. Jean-Pierre Werner (François Cluzet) e della sua assistente, dr.ssa Nathalie Delezia (Marianne Denicourt), che giorno e notte, con qualsiasi tempo, percorrono chilometri e chilometri di strade sterrate per raggiungere e rassicurare i pazienti, spesso soli e anziani. Perennemente stanchi e infangati, consapevoli che nonostante tutte le cure prodigate con passione e dedizione è nell’ordine naturale delle cose che qualche volta le persone muoiano, cercano la giusta misura fra il dovere di curare e una necessaria pietas, intesa come rispetto per qualcosa che viene considerato sacro (la dignità, appunto, e la volontà dell’individuo di spegnersi il più tranquillamente possibile, nella propria casa, fra i propri ricordi, preparato alla morte da mani affettuose).
Animali notturni inizia con una sequenza di corpi danzanti. Corpi nudi femminili, sfigurati dall’obesità, dall’età, da vaste cicatrici chirurgiche. Carni oscillanti, che si sollevano e ricadono per poi diventare oscene nature morte, immobili su pedane bianche, circondate dai visitatori di una delle tante gallerie d’arte di Los Angeles. Una gallery così alternativa da spostare sempre di più il limite della decenza umana, fino a sterilizzare l’urto emotivo originato dalla materia più dolorosa e raccapricciante, virandola in oggetto estetico di morbosa asepsi.
Una danza dal chiarore macabro, in cui si avvertono gli echi più sinistri di Mulholland Drive e si scorgono le tracce di quella stessa rappresentazione da “ultimi giorni dell’umanità”, priva di punti di fuga, avvitata in labirinti concentrici, in decostruzionismi onirici dell’identità e del mondo, nei quali si inabissano progressivamente i personaggi. Così come l’anima di Susan, direttrice della galleria, si svuota a poco a poco entro il nitore geometrico degli interni. Colta signora upper class in crisi coniugale e minacciata dall’insidia di imminenti difficoltà economiche, procede per forza d’inerzia fra futili collaboratrici vagamente robotiche e cene con petulanti parassiti orbitanti nel mondo del cinema, avvicinandosi al punto in cui il senso di vacuità diventa dolore senza ritorno. E’ in questa fase della sua vita che riceve per posta dall’ex-marito Tony una copia del romanzo appena terminato: Nocturnal Animals. Per Susan comincia un viaggio à rebours in due intensi anni di matrimonio seguiti da 19 di separazione, di completo silenzio.
Proprio nel rappresentare le vicende narrate nel dattiloscritto (alternate ai ricordi di Susan) il film di Tom Ford assume i connotati del capolavoro. Si tratta del viaggio notturno in auto di una coppia e della figlia adolescente. Nell’oscurità della strada apparentemente senza fine che attraversa una terra di nessuno fatta di terreni abbandonati, deserti, baracche, le linee del mondo diurno, definite e rassicuranti, si sfocano. Un gruppetto di giovani delinquenti ubriachi o tossici (o entrambe le cose), gli “animali notturni” appunto, segue a lungo la macchina della coppia fino a mandarla fuori strada. Lo scontro fra i due gruppi, appartenenti a tipologie umane contrapposte, incompatibili antropologicamente e culturalmente, apre le porte alle pulsioni più basse e revanchiste dell’umiliazione e della violenza. Se il riscatto viene perseguito attraverso la sopraffazione del “nemico”, di colui che nella mente del carnefice ha la colpa di ogni sua disfatta sottraendo possibilità, occasioni, spazio, lo sbocco non può che essere l’annientamento fisico e morale del presunto antagonista. Così, dopo aver insultato e picchiato selvaggiamente l’uomo, il branco rapisce, violenta e uccide le due donne, abbandonandole, nude e abbracciate, su un divano rosso nel deserto californiano, in prossimità di una baracca/rifugio.
Tom Ford, seguendo la discesa agli inferi del protagonista del romanzo, la cui figura tende a sovrapporsi a quella di Tony, agisce sui generi e sui tòpoi del cinema americano (i motel, i deserti, il western, il thriller, il poliziesco, l’on the road) rigenerandoli e reinventandoli, attraverso il buio e la luce, con uno sguardo appassionato e distaccato a un tempo. Ne risulta un metacinema mai gratuito né scontato, che attraverso la potenza simbolica delle immagini arriva, caso raro, alle ragioni ultime delle cose. Resterà sicuramente a lungo nella memoria la derelizione di Tony (un superbo, essenziale e dolente Jake Gyllenhaal) nudo e piegato su se stesso, seduto sul bordo di una vasca, illuminato da una luce caravaggesca. Come resterà il volto roccioso del poliziotto Bobby Andes (un perfetto Michael Shannon, ultima incarnazione dello sceriffo crepuscolare), malato di cancro e impegnato nelle indagini accanto a Tony. Sarà sua l’iniziativa di regolare biblicamente i conti uccidendo i due principali colpevoli, e nello scontro finale perderà la vita anche Tony, o il suo alter ego. In realtà moriranno entrambi, poiché il romanzo non è che la trasposizione allegorica della vicenda matrimoniale ed esistenziale di Tony. Adottando, pur fra dubbi laceranti, le ragioni e gli atteggiamenti farisaici della madre, Susan lascia il marito, trovandolo debole e inconcludente (mentre prima riusciva a vederne e amarne la vera natura di uomo e scrittore sensibile), per l’amante troppo bello e irrimediabilmente fatuo che si rivelerà, negli anni, un traditore e un fallito. Non senza prima essersi liberata con un aborto del bambino che aspettava da Tony. Quel giorno tutti perderanno la propria sostanza umana trasformandosi in addolorati revenants: Tony, Susan e il bambino mai nato (che si incarna nella figlia adolescente descritta nel romanzo). Susan, dopo aver letto il testo, si convince della possibilità di un riscatto, di una seconda chance, di un “dolce domani”, e fissa con Tony una cena al ristorante attraverso una serie di sms.
La cura angosciata con cui si prepara all’incontro – trucco non troppo marcato, abito verde aderante con apertura sul seno – rende percepibile l’apprensione e il desiderio che abitano la donna. Ma ci sono errori dai quali non è possibile emendarsi, ferite non rimarginabili, luoghi (della mente) dai quali non si può tornare. Tony è da quasi venti anni un fantasma, defunto senza speranza il suo spirito, quindi non potrà recarsi all’appuntamento.
In Arrival dodici immensi dischi verticali ellittici, definiti “gusci” per la somiglianza con il carapace delle tartarughe, all’apparenza scolpiti nella roccia lavica, si materializzano in punti diversi del pianeta, restando immobili e sospesi nell’aria, a diversi metri dal terreno. Questo fenomeno di origine e intenzioni ignote, scatena inquietudine e diffidenza, se non aperta ostilità, nei governi delle varie nazioni, compreso quello statunitense, che, insieme all’esercito, invia in Montana (località nella quale è comparso uno degli oggetti misterici) la dr.ssa Louise Banks, linguista geniale e non nuova a collaborazioni con la CIA (una Amy Adams di ipnotica e toccante introspezione).
Tempo e Spazio, nel ventre oscuro del monolite, si annullano, così come si dissolve il concetto di orientamento cartesiano. Resta l’Origine, sorta di vetro opalescente dietro il quale emergono, avvolti da una nebbia in continuo movimento, giganteschi eptapodi neri privi di volto (Creature atemporali alla Lovecraft che evocano Il richiamo di Cthulhu). Per comunicare emettono dell’inchiostro che va a formare sul vetro cerchi irregolari, muniti di frange e appendici in incessante mutazione. Non si esprimono quindi per mezzo di un linguaggio, sia pure criptico, bensì attraverso la minuziosa figurazione dei suoni emessi. Suoni, simili a quelli dei cetacei, che a loro volta traducono sentimenti e sensazioni. La profezia aliena, come l’idea di trascendenza di Malick (verso la fine, un’inquadratura volutamente sfocata e colma di nostalgia cita apertamente il suo stile cinematografico), può essere ricondotta alle umanissime questioni dell’amore e della perdita, rivestite però di una complessità filosofica che riesce a emozionare profondamente.
Persino il Tempo appare una convenzione. Passato e Futuro si rincorrono e si intrecciano nel presente, precedendosi o lasciandosi indietro a vicenda. Chissà attraverso quali canali percepiamo l’esistente, visibile o invisibile. Forse attraverso il sangue degli scomparsi che vive in noi, come pensava Rilke; forse sono addirittura gli scomparsi, o meglio la loro persistenza elettrica, a utilizzare i nostri sensi per toccare le cose. Popolano i nostri sogni, sospingendoci verso una conoscenza più sottile e libera dai canoni. Così agisce la presenza di Hannah, nome palindromo che rappresenta la circolarità del Tempo, la figlia di Louise morta bambina per una forma di tumore. Morta in passato, o non ancora nata nel presente e tuttavia già svanita e rimpianta, torna in continue visioni, e le sensazioni che scorrono dalla madre alla figlia creano una diversa scansione del tempo. Presenza vivida quella di Hannah, perché ciò che chiamiamo anima, spirito, è in realtà l’essenza quasi tangibile del corpo, la sua orma calda e odorosa.
Pur conoscendo l’inevitabile finale di partita, la dr.ssa Banks sceglie di giocarla ugualmente affrontando lo strazio che l’attende (o è già presente) pur di vivere il tempo breve della felicità accanto alla figlia amatissima e condannata ancor prima della nascita. Condannata eppure eternamente salva, come revenant, ossia creatura munita della facoltà di assimilare e comporre in un disegno infantile la fusione di passato e futuro, nonché di diventare passato e futuro (nel perpetuarsi del presente) entro la visione onirica della madre. E’ da questa sintropia mnemonica, da un meccanismo naturale di elaborazione della reminiscenza contrapposto alla barbarie dell’isteria collettiva, all’appiattimento su un presente senza storia dominato dalla paura e dal senso comune, che può iniziare una reazione a catena salvifica. Questo è il dono, non l’arma, portato dagli Eptapodi.
In due di questi tre film straordinari troviamo anche la miglior attrice della stagione: Amy Adams. Per quanto riguarda le interpretazioni maschili, svetta il giovane Andrew Garfield, protagonista del bel Silence di Martin Scorsese ma, soprattutto di La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson (fra l’altro questo film, un po’ sottovalutato, mostra nella terza parte, senza virtuosismi gratuiti, grande dinamismo e coordinazione scenica, oltre a notevoli soggettive), dove disegna da grande attore la figura di Desmond Doss, obiettore di coscienza che si arruolò nell’esercito come medico durante la seconda guerra mondiale e che nel corso della battaglia detta di “Hacksaw Ridge” (in realtà Maeda, una zona di Okinawa) salvò 75 vite senza uso di armi.
Sarà molto difficile dimenticare la trepida tenacia, l’inflessibilità etica e l’umanità appassionata dell’esile soldatino infangato e coperto di sangue mentre porta in salvo, a uno a uno, i compagni feriti. Come sarà difficile non conservare in un angolo della memoria il suo prezioso Padre Rodrigues, protagonista di Silence di Martin Scorsese. Lo scopo principale dei due giovani gesuiti portoghesi è all’inizio quello di ritrovare il loro maestro Padre Ferreira, scomparso da anni in Giappone e accusato di abiura dall’Ordine, però il contatto con gli abitanti dei villaggi li porta a scoprire il senso più profondo della parola compassione: patire insieme, sentire nella carne la necessità, fisica e interiore, che si agita informe nell’altro, percepire la vita negli occhi di un proprio simile. Una creatura che, appartenendo a una cultura molto distante, non riesce a comprendere il concetto di trascendenza dell’umano insito nel Cristianesimo (come fa notare l’Inquisitore a Rodrigues), e quindi avverte il bisogno struggente di una Guida che incarni il Dio e si prenda cura della comunità, trasformando la prospettiva del Paradiso in una condizione tangibile e visibile nella vita quotidiana.
Rodrigues, dopo aver sofferto per anni il silenzio di Dio, non cessando mai di invocarne la voce e la presenza, si troverà ad affrontare la scelta più terribile: abiurare e calpestare l’immagine di Cristo o lasciar morire dissanguati a poco a poco cinque contadini appesi a testa in giù in pozzi scavati appositamente. Non si tratta del martirio eroico che nei suoi intenti lo avrebbe reso simile a Cristo, ma solo di una decisione che si configurerebbe come arrogante e disumana. Rodrigues, pur con l’anima che sanguina, posa il piede sull’immagine. Forse – è un’ipotesi – Dio parla attraverso tutto quello che abbiamo intorno, e dentro (compresi gli errori, le distrazioni colpevoli, l’indifferenza, l’insensibilità, se solo riusciamo a capire). Forse somiglia al Dio smarrito e poeta di Malick (quando potremo vedere Voyage of Time in Italia?), un Creatore che non sa, che invoca il manifestarsi di una Madre assente, che abita dentro l’incessante meraviglia delle forme, che attraverso il suo desiderio dà inizio alla vita, ma non è in grado di interferire con ciò che si va plasmando nell’universo e nel cuore dell’uomo. Sono tante le parti memorabili in Silence: per es. le dispute filosofico/politiche, anche ironiche, fra Inoue e Rodrigues, o quelle teologiche, tese, ambigue, fra Ferreira e il giovane Padre gesuita. Però la figura che si imprime a fuoco nella mente è quella di Kichijiro (Yosuke Kubozuka plasma un fool shakespeariano tragico e patetico, capace di straordinarie controscene), pavido e traditore recidivo, eppure toccante nella sua sofferenza, nel perseguire tenacemente un riscatto di cui non è capace. Kichijiro rappresenta probabilmente l’umanità intera, che cade e cade di nuovo, e soffre, soffre immensamente per la propria inadeguatezza.
Altre belle prove maschili sono quelle di James McAvoy, stupefacente operazione di mimesi multipla, in Split di M. Night Shyamalan (che si avvale della presenza vibrante di Betty Buckley nel ruolo di una psichiatra; qualcuno la ricorderà in Frantic di Polanski), maestro delle atmosfere liminali, e di Tom Hanks in Sully di Clint Eastwood; tutta in filigrana e nello stesso tempo classica, solidissima, esprime l’angoscia che scaturisce da una decisione rischiosa ma necessaria, priva di alternative: scendere con l’aereo in panne sulle acque del fiume Hudson, in pieno inverno, nel tentativo di salvare i 155 passeggeri e l’equipaggio.
Ed è stato un vero colpo al cuore ritrovare Sigourney Weaver nel pieno di una maturità artistica e umana che le ha permesso di rendere dolorosamente viva, attraverso mille sfumature interiori, la nonna di Conor in 7 minuti dopo la mezzanotte, autentico gioiello di J.A. Bayona uscito a fine stagione.
Il piccolo Conor (Lewis MacDougall, rivelazione della stagione e magnetico come sanno esserlo soltanto i piccini anglosassoni), non più bambino e non ancora adolescente, si trova ad affrontare l’imminente scomparsa della madre per un tumore che le sta rosicchiando persino il respiro. E’ un invisibile che a scuola deve subire le violenze dei compagni, e la notte è tormentato dagli incubi. E cosa fare quando il peso diventa insostenibile? Si evoca un mostro che appaia ogni giorno 7 minuti dopo la mezzanotte.
Un albero millenario che assume spaventose forme antropomorfe e raggiunge Conor per raccontargli con voce ancestrale, profonda, tre storie in cui il senso alla fine si rovescia, perché l’identità e i moventi sono materia sfuggente e nessuno è del tutto vittima o carnefice. Narra le tre vicende per convincere Conor ad accettare ed esprimere la verità che tiene chiusa nel cuore: ovvero che il dolore per la madre è così insopportabile da desiderare (e nello stesso tempo non desiderare) che tutto finisca. E’ umano, è normale. Averne coscienza aiuterà Conor a raccogliere gli ultimi istanti di vita della madre, in ospedale, tenendole la mano. E a vedere della nonna, apparentemente brusca e autoritaria, la vulnerabilità addolorata e accogliente.
Altri due film segnati da una grazia numinosa ci sono (ap)parsi Frantz di François Ozon (forse la più bella sceneggiatura dell’anno) e La luce sugli oceani di Derek Cianfrance.
Il raffinato kammerspiel di Ozon inizia nel 1919 in una piccola città della Germania. L’orgoglio tedesco, ferito dalla sconfitta bellica, inacidisce in rancore, in ostilità sprezzante nei confronti di chi si è permesso di infrangere il progetto di estendere l’Heimat oltre i confini della Nazione annientando l’identità altrui (tentativo che verrà ancor più drammaticamente ripetuto venti anni dopo secondo i criteri assertivi suggeriti dal sintagma “blut und boden”). Questo sentimento si rivolge in particolare alla Francia; non sorprende quindi che l’intera cittadinanza accolga con scherno aggressivo il giovane reduce francese apparso improvvisamente nel villaggio. Adrien è arrivato per rendere omaggio alla tomba di Frantz, caduto in guerra, e proprio nel cimitero incontra Anna, la fidanzata di Frantz, che vive con gli anziani genitori del ragazzo. Invitato a casa dei genitori del soldato defunto, riesce a vincere, procedendo con educata, dolente cautela, la diffidenza che i tre gli oppongono. Racconta loro con delicatezza e rimpianto l’amicizia con il giovane tedesco, afferma di averlo conosciuto a Parigi, prima della guerra, e frequentato a lungo e intensamente. Le storie che tesse intorno a questo sodalizio fanno tornare i tre alla vita e al sorriso. La morsa che serrava i loro cuori in un inverno senza fine si allenta. Adrien non viene visto più come il “nemico”, lo straniero, l’estraneo, bensì come un giovane malinconico dai modi garbati, segnato dal loro medesimo lutto, nelle cui parole rivive il figlio (di grande sensibilità la prova di Pierre Niney).
Solo dopo molti giorni Adrien troverà il coraggio di confessare la verità ad Anna: è stato lui a uccidere Frantz nel corso di una battaglia, non lo aveva mai visto prima di quel momento. Se lo è semplicemente trovato di fronte e, con dolore, ha sparato per primo per paura di morire. In quell’istante tuttavia la sua anima è stata trafitta dall’ultimo sguardo di Frantz, colmo di una pena illimitata. Pena per quel suo sconosciuto coetaneo francese costretto a ucciderlo per salvarsi. Quello sguardo e un rimorso senza fine hanno condotto Adrien in Germania per chiedere perdono ai familiari di quel soldato così simile a lui.
Molto lontano per temi e stile dalle provocazioni che gli sono proprie, Ozon firma un’opera elegante e sincera, essenziale e pudica, dove il gioco di alternare il colore (la speranza che rinasce) al bianco e nero (la sofferenza che diventando consuetudine annienta la vita) risulta misurato e perfettamente riuscito.
Epico e romantico, splendidamente fotografato, La luce sugli oceani di Derek Cianfrance avvince ed emoziona, soprattutto grazie all’intensità tormentata e al senso della misura di Alicia Vikander e Michael Fassbender.
A Thomas Sherbourne viene affidata la sorveglianza di un faro situato sulla piccola isola di Janus, sotto la giurisdizione del Commonwealth. Il nome del luogo evoca il mese dai due volti: uno che guarda all’anno appena trascorso e l’altro che si rivolge al futuro; e può essere considerato anche la rappresentazione simbolica dello stato d’animo di Thomas. Uomo taciturno, austero, segnato dalla morte nella quale si è trovato immerso per quattro anni durante la prima guerra mondiale. Anni passati a vedere cose e persone scomparire per sempre, con i piedi affondati nel fango ghiacciato fino a diventare insensibili, come la sua anima ricoperta da una sottile crosta di brina. Janus si trova sul confine invisibile fra l’Oceano Indiano e quello Australe, il più piccolo e meridionale della Terra, formato dai mari che circondano il continente antartico. Il fondo di questo oceano è coperto da depositi di origine glaciale; la corrente circumpolare dà origine ai venti più forti del pianeta e, talvolta, a violente tempeste cicloniche. Su questa linea di acque metamorfiche, che le variazioni della luce trasformano spesso in dune desertiche, dove “si aspetta all’infinito che non accada niente”, gli uomini impazziscono di solitudine e si suicidano incalzati dai propri fantasmi. La prima scoperta dello spettatore, davanti a questo film mirabilmente iperletterario, è di trovarsi in prossimità dell’isola di Prospero, là dove “non un’anima sola ha potuto resistere a una febbre di follia, o a non dar segni di sgomento”. Ma è proprio nell’asprezza delle rocce, nella vegetazione bassa ingiallita dal vento salato, nella nudità del puro vivere che Thomas trova pace. L’allucinazione onnipresente di quella distesa d’acqua diventa l’elemento in cui mimetizzarsi (“coralli son l’ossa,/son gli occhi due perle nel volto./Ma niente di lui sarà vano/che per un incanto del mare/dovrà trasformasi in qualcosa/di ricco e di strano.”). Tutto inizia lentamente a cambiare quando Thomas conosce Isabel e viene alla luce per la seconda volta, travolto dall’amore della ragazza. Un sentimento immediato, pieno di vita e splendore, impetuoso e dolce, che scioglie i timori dell’uomo: “non voglio che la mia oscurità ti contamini” le dice amaro, “c’è ancora una fiamma dentro di te, simile alle stelle che stanno sopra il tuo faro” risponde Isabel. Da questo momento la storia si ridefinisce sui canoni del romanticismo anglosassone. La passione nasce dalla natura circostante, animata e cruenta, per rifluirvi diventando possessione mistica. Attraverso il fuoco dei corpi ciascuno dei due accede alla propria essenza (vengono in mente l’estremizzazione di “Cime tempestose” e l’assolutezza del Cantico dei Cantici: “O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso.“). L’urlo assordante del vento, principale protagonista del film così come del romanzo di Emily Bronte, accompagna la faticosa risalita di Isabel al faro, e impedisce a Thomas di sentire i richiami disperati della ragazza, piegata in due dai dolori dell’aborto imminente. L’impossibilità di Isabel di portare a termine le gravidanze comincia a produrre evidenti incrinature nel rapporto. Fino al giorno in cui Thomas porta a riva una barca a remi alla deriva nella quale si trovano una neonata e il cadavere di un uomo (il padre). Tom si lascia convincere da Isabel, preda di un disperato desiderio di maternità, a non denunciare il naufragio e tenere la bambina, che resterà con loro per quattro anni. Soltanto quattro. Perché la madre di Lucy è viva e crede che marito e figlia siano morti in mare. Il dolore incessante la chiude in un velo d’ombra. L’orologio della vita per lei si è fermato per sempre. Nel frattempo Thomas, venuto a conoscenza dell’esistenza della donna, sprofonda in dilemmi morali e sensi di colpa analoghi a quelli di tanti personaggi di Hawthorne. Si tormenta segretamente come il reverendo Dimmesdale; l’inquietudine e il desiderio di ristabilire l’ordine naturale delle cose lo pungono con aculei roventi, spingendolo a seminare indizi riguardo all’identità di Lucy. Dopo alcune tragedie sfiorate, il mondo tornerà effettivamente nei cardini, grazie alla generosità nuovamente innamorata di Isabel.
Preferiamo glissare sul sopravvalutato e greve Elle di Verhoeven, nonché sull’inconsistente, furbissimo La la land, per impiegare il tempo divagando intorno all’ultima opera di Woody Allen Cafè Society. In questo bildungsroman al contrario, dove il giovane Bobby Dorfman si inaridisce progressivamente anziché sviluppare un’identità morale, abbiamo la sensazione di assistere a una storia a bandes dessinées. Piccoli sketch a volte folgoranti, a volte un po’ appannati o scontati, abitati da figurine spesso unidimensionali che tendono pericolosamente allo stereotipo.
Nella narrazione ben articolata fra episodi paralleli e flashback, cattura l’attenzione soprattutto la parte newyorkese della vicenda, per il ritmo veloce, i dialoghi aciduli, gli umori da black comedy (godibile l’interramento di vari cadaveri), e l’irresistibile famiglia ebrea di Bobby: il fratello gangster, ghiotto di frittelle di patate, che prima di essere giustiziato si converte al cristianesimo perché la religione ebraica non contempla un aldilà ma solo lo sheòl, mondo sotterraneo senza luce, né vita, né Dio, e nessuno desidera che tutto finisca con la morte; la madre e la sorella ortodosse ma estremamente pragmatiche e vendicative; il padre abulico e asservito al figlio maggiore; il cognato comunista e pacifista. Un compendio di caratteri, inseriti in una cornice di finti contrasti e riappacificazioni consumate al desco familiare, già visti in vari film di Allen, a cominciare da Annie Hall. Più stanco appare il racconto dell’ascesa sociale di Bobby, “un cervo abbagliato dai fari”, nella Hollywood del 1930. Allen costruisce una lanterna magica; suscita, attraverso lo sguardo della senescenza, il fantasma di un’infanzia dell’immaginario volta al crepuscolo e immersa nella luce dorata, immutabile di Storaro, che evoca “l’intensa leggiadria del technicolor” d’antan. Muovendosi sulla schiuma dei giorni inondati di sole, Bobby, un po’ annoiato e un po’ affascinato, scopre una città fondata sull’Ego e viene introdotto dallo zio Phil, agente astuto e millantatore come tutti gli altri, in un demi-monde ansioso, futile e parassitario. L’incontro con Vonnie, collaboratrice e amante di Phil, sembra che possa deviare il corso delle cose, e anche condurre il film fuori da una pericolosa bonaccia. Si percepisce per qualche istante il profumo del Caso benevolo, degli equivoci d’amore di As you like di Shakespeare (uno dei numi tutelari di Allen), dei sorrisi d’estate. Ma si tratta di un breve interludio; le intenzioni si ripiegano su se stesse, gli elementi narrativi appaiono devitalizzati. Allen si rannicchia in un’involuzione amniotica che si spera temporanea. Il suo sguardo prende le distanze e rinuncia a colpire. Si rimpiange (tanto) il Woody Allen di Blue Jasmine, implacabile e pietoso, capace di incrinarci il cuore con una reale cognizione del dolore. E ancor più si rimpiange l’entomologo sconcertato dall’assenza di ordine e giustizia nelle relazioni umane dell’insuperabile Match Point. Persino l’acido, sublime illusionista dell’onirico Midnight in Paris, e il crudele, inquieto sezionatore di vanità e illusioni umane di You will meet a tall dark stranger appaiono lontani.
Imperfetto ma interessante, Passengers di Morten Tyldum ci racconta l’odissea della nave spaziale Avalon, appartenente alla flotta di una multinazionale che si occupa di trasferimenti galattici, mentre procede nei suoi 120 anni di viaggio verso il pianeta/colonia Homestead II. Attraversa i fiocchi lattiginosi delle nubi interstellari formatisi in seguito all’esplosione di fiammeggianti supernove e, talvolta, alla fusione nucleare delle stelle. Questa polvere di silicati, grafite e carbonio assorbe o riflette la luce e, insieme alle formazioni di condrite porosa interplanetaria, crea suggestioni visive che nessuno a bordo è in grado di ammirare. I 5000 passeggeri e i 280 membri dell’equipaggio giacciono infatti in uno stato di sonno criogenico, chiusi in capsule trasparenti d’ibernazione (come in Alien e in 2001 Odissea nello spazio) e avvolti dal sottile ronzio di sistemi di controllo ipersofisticati. La parte più inquietante e potente del film è senza dubbio la panoramica degli interni di Avalon: un chilometro di strutture smisurate e dominate dal Vuoto, il cui nitore disumanato e l’asettica funzionalità delle linee sembrano alludere a una morgue delle anime, prima ancora che dei corpi. Vite sospese, come quelle di certi personaggi delle fiabe, o di Oblomov; esseri umani di estrazione sociale e formazione culturale assai varia che l’avidissima e assai classista Organizzazione (su Avalon persino le portate della colazione sono stabilite in base al reddito accertato) è riuscita a sedurre con melliflui e scontati messaggi, facendo leva sulla hybris intellettuale, per es. di Aurora Lane, che spinge con prepotenza a sottovalutare gli affetti e le possibilità di cui già siamo circondati per inabissare tre volte la nostra fragile imbarcazione oltre le Colonne d’Ercole, fino al richiudersi delle acque sulla nostra stupidità e sul pianto di chi ci siamo lasciati con leggerezza alle spalle. Altre volte, come nel caso di Jim Preston, la persuasione, non occulta bensì quasi spudorata, agisce sui fallimenti delle potenziali prede, sul sentirsi estranei ai meccanismi sociali imperanti, sul desiderio angosciato di assumere una forma che corrisponda il più possibile alla percezione della propria identità e capacità di plasmare gli elementi di base per costruire un “mondo nuovo” che sia anche molto antico, molto umano. Dopo trent’anni di viaggio, la nave spaziale si scontra con un meteorite. L’impatto produce una gravissima avaria, che darà luogo nell’arco di due anni a una reazione a catena di guasti e anomalie funzionali, il primo dei quali è la disattivazione precoce della capsula d’ibernazione del passeggero Jim Preston. Il giovane ingegnere attraversa tutti gli stadi dell’alienazione da solitudine: l’iniziale spaesamento, i tentativi rabbiosi di trovare una soluzione impossibile, la ricerca altrettanto impossibile di un adattamento all’ambiente attraverso l’utilizzo degli “svaghi” previsti per i passeggeri durante gli ultimi quattro mesi di navigazione: un campo di basket, una pista da ballo con ologrammi danzerini, e Arthur, unico vero compagno, un barman/androide troppo innocente per avere dei punti in comune con il satanico barista fantasma di Shining. Ascoltando le sue frasi sul rapporto luogo-tempo, e sul concetto di serendipity che scorre sottotraccia in tutto il film, vengono in mente alcuni personaggi surrealmente saggi di Alice in Wonderland. E’ vero che troppo spesso giriamo a vuoto, sempre trascinati dalla voglia di essere da un’altra parte, in un altro momento, con un’altra persona, a fare un’altra cosa, scordandoci la necessità morale della concentrazione, dell’attenzione, della presenza reale.
Ma Arthur, il bravissimo Michael Sheen, non può bastare, così Jim scivola in una progressiva cupio dissolvi. Non cura più l’igiene personale, non si veste, non si rade, si abbrutisce, comincia a desiderare la morte. Fino al giorno in cui decide di indossare la tuta spaziale esterna e volare fuori, fuori da quella prigione d’acciaio, fuori da se stesso. La scossa emotiva è violenta fino al pianto. Il silenzio e l’assenza di limite, le luci e il buio, l’irrilevanza di una figura umana dentro quell’immensa inconoscibilità, scatenano in Jim, per paradosso, un attaccamento animale alla vita. La sequenza, pur lontana dal virtuosismo visionario e lirico di Gravity (e purtroppo Chris Pratt non è Sandra Bullock), lascia un segno nella memoria. La vicenda accelera. Jim individua una “dormiente”, la scrittrice Aurora Lane, che potrebbe rendere la sua non-esistenza meno derelitta, e pur fra mille dubbi etici decide di disattivarne la capsula. Nessuno è così stoico da sopportare in solitudine l’inferno in cui sta sprofondando; si preferisce rubare la vita a qualcun altro pur di non restare da soli a guardare nello specchio il riflesso del nostro fantasma. Se l’Altro non ci guarda, non esistiamo. Purtroppo da questo punto in avanti la storia diventa troppo dialogata e s’invischia in melensaggini sciroppose da commedia sentimentale. Inoltre, il risveglio dell’ipervitaminizzata Jennifer Lawrence, che come di consueto si affida alla prestanza fisica e a una gamma di sfumature espressive non ricchissima, non suscita gli entusiasmi dello spettatore appena esigente. Si salvano ancora alcune sequenze di sbalorditiva realizzazione, come l’acqua della piscina che diventa una fatale bolla azzurra a causa di un’improvvisa caduta di gravità interna, o la riparazione del condotto di aereazione del generatore di Avalon. Appare invece abbastanza ridicola la “resurrezione” di Jim operata dalla capsula medica. Se non si fosse voluto cercare il lieto fine hollywoodiano a tutti i costi, il sacrificio di Jim e la reazione di Aurora potevano innescare una riflessione non banale sull’incapacità umana di far fronte al dolore e alla perdita, sullo strazio che origina dall’irreparabilità di un evento.
Tutt’altro che riuscito, eppure straodinariamente vitale, è stato Three Generations di Gaby Dellal. La percezione di sé che agita i pensieri degli adolescenti, con un moto ondivago spesso turbato dall’ansia, dalla rabbia, dal senso di inadeguatezza e solitudine, è una materia delicata. Rappresentare gli slittamenti dei giovani verso la depressione o l’esaltazione senza cadere nel luogo comune non è impresa facile. La regista Gaby Dellal, per decifrare la personalità di Ray/Ramona, ragazza che si sente imprigionata in un involucro estraneo alla sua reale natura, in vari momenti del film sceglie di seguirne il corpo con modalità da cinema indie. Ci mostra i suoi voli sullo skateboard dentro colori che somigliano ai suoni di una jam session o a un dipinto di Basquiat; acidi, eccessivi, infantili. Corse sui ponti di New york a velocità folle, fra bagliori di luce, perché a 15 anni si è immortali, incuranti di ogni rischio. Conta soltanto l’ebbrezza che dà fendere l’aria. Cerca così di trasporre in immagini non banali la chimica maschile che sembra predominante nella mente di Ray. La storia però non riesce a trovare un equilibrio convincente, oscillando di continuo fra buoni sentimenti politically correct e perplessità assolutamente condivisibili. Non voglio più essere un’eccezione protesta Ray; però la vita, a meno che non la si voglia intendere come una successione irrilevante di giorni, è fatta proprio di eccezioni, di eccedenze impossibili da ordinare sugli scaffali, di tutti i retrobottega bergmaniani della nostra anima, di doppi e tripli fondi, di note a margine e appendici, cancellature e riscritture, tifoni epifanici, improvvise deviazioni di rotta non riconducibili ad alcuna forma di normalità. Quella normalità tanto desiderata dagli adolescenti, quella brama assurda di sentirsi accettati a qualsiasi costo. Anche a costo di affrontare un arduo percorso farmacologico e chirugico, che comunque non consentirà un impossibile “passaggio” al genere opposto, ma solo la metamorfosi in un freak liminale cui sarà precluso il piacere e che continuerà a venire irriso. Quando si prende coscienza di guardare con desiderio le coetanee, le altre ragazze, le compagne di scuola, è infinitamente più semplice convincersi di essere un maschio con le tette, una creatura cui il destino ha giocato un brutto scherzo (e cercare di sanare l’anomalia), piuttosto che affrontare gli infiniti gradi di ambiguità che il cuore umano è in grado di contenere. Si è spesso manichei a quell’età, non si possiedono i codici per accedere al labirinto vertiginoso della passione, alla conoscenza degli innumerevoli elementi dell’identità, al doppelganger (viandante insidioso e necessario), ai giochi combinatori nascosti dietro gli specchi. Gli adulti di riferimento (genitori, parenti, insegnanti, psicologi, ecc.) non possono essere di grande aiuto. Le parole, i concetti, rimangono astrazioni destinate a rimbalzare contro chi non ha ancora l’esperienza, gli strumenti interiori per decifrarli e farli propri. Serve agire entro lo spazio emotivo del/la ragazzo/a, e, in quest’ottica, l’arte nelle sue varie forme rappresenta certamente una chiave per aprire la porta di un mondo lontano e incomprensibile, forse persino minaccioso, destabilizzante. Anche l’incontro con una enchanting lady (Patricia Highsmith docet) può folgorare sulla via di Damasco la barbarie apodittica di qualunque Ramona o Ray, aprendo prospettive e possibilità impensate fino a quel momento.
Maggie, la madre di Ray (una splendida Naomi Watts, lacerata e complice nello stesso tempo), è consapevole dell’irreversibilità, e soprattutto dell’inutilità atroce, della scelta della ragazza e si chiede con angoscia chi la amerà?, svelando il paradosso di un cambiamento di genere parziale e apparente: una decisione presa per ottenere amore e considerazione dal prossimo condurrà solo a una diversa infelicità, senza ritorno. Il tono drammatico del confronto madre/figlia, viene a tratti alleggerito, e depotenziato, dalle controscene costruite intorno alla coppia formata dalla nonna di Ray (Susan Sarandon) e dalla sua compagna. I dialoghi sarcastici che le due mature amanti sviluppano all’interno della loro relazione ed estendono alle discendenti vorrebbero riverberare l’irresistibile, nevrotica riottosità di film leggendari come La strana coppia, ottenendo invece l’effetto di produrre una nota stonata che rende incongrui e persino antipatici i due personaggi (qua e là si ha il sospetto che l’intento della regista sia proprio questo). Dopo una seconda parte trascorsa per lo più in noiose questioni di paternità variabile che si pensava fossero una caratteristica esclusiva delle soap opera, Three generations cade nel conformismo di un finale edificante e familistico orribilmente zuccheroso. Difetto frequente nel cinema “medio” americano.
Per finire, vorremmo ricordare l’asciutta, esemplare amarezza di Emma Thompson (il volto irrigidito in una maschera di piccole, dure rughe di dolore) in Lettere da Berlino, la sensualità malata e canicolare – à la Maupassant – di Marion Cotillard in Mal di Pietre, l’esilarante e struggente Meryl Streep di Florence, lo spericolato sincretismo stilistico di Personal shopper (scritto e diretto da Olivier Assayas), la Helen Mirren ufficiale dell’esercito lacerata dal dubbio in Il diritto di uccidere, la rievocazione dello sceneggiato televisivo Belfagor, visto dal piccolo protagonista insieme alla mamma, in Fai bei sogni di Marco Bellocchio, e la bizzarria coinvolgente di Eva Green nell’ultimo film di Tim Burton Miss Peregrine, un diorama malinconico e colorato sulla diversità e la solitudine, su un’infanzia prolungata all’infinito, simile a una cupola di cristallo in grado di proteggere i bambini speciali dalla crudeltà del mondo e dal vuoto dell’immanenza.
Lucia Tempestini
Sergio Cervini