La mise en abyme di Assayas
Risposta a una lettrice intorno a ‘Personal Shopper’
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Avendo ricevuto la mail di una Lettrice che esprime dure critiche nei confronti di “Personal shopper”, mi sento in dovere di replicare pubblicamente, per spiegare meglio le ragioni che mi fanno ritenere importante questo film. Ognuno ha il diritto di pensarla come crede, eppure provo sempre un certo dispiacere quando un’opera di qualità (ce ne sono così poche) si attira il dileggio di una parte del pubblico.
A margine desidero rassicurare la Lettrice circa lo stato di salute del cinema francese, anche in questa stagione sono stati distribuiti nelle sale italiane tre film eccellenti: “Riparare i viventi”, “Il medico di campagna” e, appunto, “Personal shopper” (ed è imminente l’uscita di “L’avenir”, con Isabelle Huppert). Mi preme anche informarla che le doti interpretative di Kristen Stewart si sono già rivelate nel precedente film di Assayas “Sils Maria”, durante il quale ruba ininterrottamente la scena a Juliette Binoche, e in “Still Alice”, in cui non sfigura di fronte a una straordinaria Julianne Moore.
Entrando nel merito, penso che il tema di “Personal shopper” sia l’indefinitezza, come suggeriscono le molte sequenze in cui Maureen percorre Parigi in scooter, circondata da un paesaggio urbano dai contorni sfocati, come giustamente nota la Lettrice.
Indefinitezza dell’identità, in primo luogo. L’alterazione dell’identità attraverso la mise, che si fa mise en abyme e diventa alterità, specchio illusionistico, rimandando alla Madeleine/Judy di Vertigo. L’abito fetish viene indossato nel tentativo di evocare una forma esterna ed estranea, mentre Assayas ci fa ascoltare una canzone di Marlene Dietrich (il feticcio per eccellenza), mutando la protagonista in figurazione (in fantasma) di quella forma, che innesca nella ragazza una pulsione desiderante astratta e la spinge a compiere un atto che è autoerotico solo in apparenza.
Figurazioni soltanto, direbbe Rilke, fantasmi di questo e dell’altro mondo che si incrociano sui pianerottoli, negli ascensori, nei corridoi algidi di alberghi parecchio simili all’Overlook Hotel, sui treni, nelle camere, nei baratri della mente.
Certo, la sceneggiatura non è il punto di forza del film (anche se ci sono sprazzi di bella scrittura, per esempio nella parte riguardante Victor Hugo), visto che Assayas voleva costruire un film essenzialmente visivo sulla futilità dell’oggi, sull’isolamento digitale che ci conduce al grado zero di comunicazione, nonché sull’angoscia suscitata in alcuni da questa futilità e questo isolamento. Angoscia e senso di inutilità delle proprie azioni, del proprio lavoro assurdo e mortificante.
“Personal shopper” poteva forse risultare più estremo e intenso se fosse stata Maureen, posseduta dal suo lato d’ombra (che dà vita agli spiriti) o da un’altra identità, a uccidere Kyra, ma in questo caso sarebbe stato un film di Lynch e non di un regista come Assayas dotato di una visione dell’esistenza non del tutto apocalittica.
L’orrore, la paura, servono ad amplificare l’immedesimazione fisica dello spettatore con Maureen e a creare quella dimensione immateriale e inconoscibile nella quale sprofonda la ragazza.
A questo proposito mi permetto di dire che paura ed erotismo sono elementi primari dell’animo umano, non sottovalutabili. L’artigianalità “vintage” degli effetti speciali è un esplicito omaggio al cinema horror d’antan.
Concludo esaminando l’ironica demolizione di Kristen Stewart attuata dalla spiritosa Lettrice (cui devo riconoscere una vivace intelligenza espressiva). Oltre a quanto già detto, chiedo alla gentile interlocutrice quale interprete poteva rappresentare l’oggi meglio di questa ragazza che è autentica incarnazione dell’oggi? Che esprime la contemporaneità con tutto il suo carico di agitazione, cupezza e impotenza, vivendola addirittura nella carne.
E’ vero, ha un modo di esprimersi nello spazio più maschile che femminile, ma Assayas le ha chiesto di essere se stessa, di plasmare Maureen a sua immagine e somiglianza. Inoltre, alcuni suoi piccoli gesti – il coprirsi il viso con un lembo del giubbotto, o un mezzo giro su se stessa che può ricordare i rituali e le indecisioni dell’adolescenza – nascono da un principio empirico d’immanenza non banale.
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