Un poverocristo. “Dogman” di Matteo Garrone
In principio è il caos. Poi sopravvengono l’indigenza, lo squallore. C’è tutto ciò in Dogman, nuovo film di Matteo Garrone. Non si tratta peraltro di un ordito originariamente desolato, ma anzi di una storia tetra, corrusca che mette in campo personaggi e vicende tutti contingenti calati in un ambiente anonimo i cui abitanti sembrano privi di qualsiasi umanità, tanto spento, devitalizzato si prospetta fin dall’inizio l’approccio a un mondo senza dignità o semplicemente civile.
Il décor entro cui si situa Dogman è ricavato dal degradato Villaggio Coppola di Castelvolturno, ove una comunità gretta, insensibile a tutto coltiva rapporti dettati solo da puri fatti di forza o precisi interessi pratici: nessuna confidenza reciproca, ancor meno qualche superstite solidarietà.
Qui, in questo deserto quotidiano si rintracciano, tra legami di interesse e speculazioni ai margini della legge, i casi ora brutali ora disperati del mite Marcello un uomo dedito alla cura dei cani e del suo violento amico-persecutore Simone (personaggi ispirati a un fattaccio di sangue della Magliana), e un’ampia cerchia di figure che fin dalle marcate fisionomie rivelano la loro iniquità di fondo. Tutto attorno, negozi degradati, luoghi privi di qualsiasi connotazione vivibile (c’è persino un locale di striptease malamente frequentato).
Ora il fulcro del racconto – dettato dalla sceneggiatura dello stesso Garrone e di Ugo Chiti e Massimo Gaudioso – ruota sin dal principio tra l’apparentemente ilare Marcello, gestore appassionato di un negozio per cani, e il violento Simone, già pugile fallito e ora totalmente posseduto dalla cocaina. I due, formalmente amici, sono in effetti l’uno (Marcello) la speculare vittima del secondo (Simone) il più dei giorni aggressivo e dispotico contro quel suo rassegnato compagno, costretto in varie occasioni a spacciare e consumare droga e finanche coinvolto in imprese decisamente delinquenziali (il furto con scasso di un negozio di gioielliere). Tutti fatti per i quali in prigione finisce il mite Marcello e non il mascalzone Simone.
La storia di Dogman si srotola via via con incalzanti episodi che vedono la solita vittima sacrificale – in effetti c’è qualche aspetto religioso nella figura del poverocristo succubo incolpevole della prevaricazione di tutti – incastrata dalla violenza e dalla spietatezza della vita in una esistenza da incubo (salvo le rare pause delle vacanze marine con la piccola figlia Alida, sorta di compensazione tutta dovuta per i troppi oltraggi subiti). Fintantoché, dopo ulteriori pestaggi subiti dal brutale Simone, Marcello mette in atto la sua sanguinosa vendetta, pur se in extremis temperata, nella inquadratura finale, dall’attonita figura in atteggiamento quasi pentito. Pregio prioritario del robusto film di Garrone risulta l’interpretazione magistrale di Marcello Fonte, davvero da premio. Ciò che Cannes non gli ha negato.