Il sudario delle aspirazioni. “Lo spreco” di Agata Motta
Non c’è richiesta del corpo che possa essere ascoltata. Neppure la sete che forma ragnatele nella gola. Perché lui è lì sul letto, con l’abito della sua ultima festa dentro il quale piano piano si avvizzisce mentre il viso diventa un mucchietto di ossa e ombre. E annega nell’isolamento. Si sentirà smarrito? Si sentirà solo, estreaneo a se stesso, abbandonato, impotente? Avrà freddo? E’ il primo pensiero che passa per la testa: lì dov’è adesso avrà freddo? Gli ebrei pensano che l’aldilà sia un luogo buio e triste, lontano da dio, un posto vuoto. Sarà così?
Però è ancora sul letto, almeno lo puoi vedere. Domattina, quando lo porteranno via, si apriranno le porte di un inferno irreversibile.
Per fuggire questo pensiero, e il freddo che tu senti, non ti resta che aggirarti dentro la tua testa, allestendo, come i matti, una rappresentazione in cui impersoni te stessa e tuo padre insieme. Rispondendoti con le frasi che sono state le sue. Camminando sulle sue orme per non andare in cucina e tagliarti la gola. Chiedendo ancora, adesso che il tempo è finito, le parole che avrebbero potuto farti essere un’altra. Sarebbero bastate poche bracciate, un gesto tenero di riconoscimento. Finché, passando in rassegna i frammenti spauriti del passato, non ti imbatti nel caldo appiccicoso del pomeriggio – il cielo rosso graffiato dal frinire delle cicale – in cui, durante una conversazione in terrazza, avevi detto, forse per sfida, per sondare la sua capacità di chiedere scusa dopo tanto tempo: se fossi andata al Centro Sperimentale di Cinematografia i miei sì che sarebbero stati signori film. La sua risposta ti ha fatta vacillare: e perché non ci sei andata?
Arriva quando meno te l’aspetti il momento fatale (fatale perché tardivo, perché arriva quando nessuno dei due vuole più strapparsi dal viso la maschera del rancore, o della distanza, o semplicemente del silenzio, della comunicazione rituale, “di servizio”) in cui capisci che il sudario in cui hai avvolto le aspirazioni e la stessa esistenza te lo sei cucito da sola, punto dopo punto, agucchiando fittamente gli orli della morte, tua e altrui. L’onnipotenza dei genitori è soltanto il desiderio dei figli di continuare ad essere figli; è la pretesa impossibile che due persone a loro volta piene di dubbi, infelicità e fragilità, bisogno di rassicurazione, di accudimento interiore, possano leggere ininterrottamente nel pensiero degli esseri che hanno messo al mondo, coltivando così il loro bisogno di felicità.
Rischiamo in questo modo di condividere la sorte del contadino che nel racconto di Kafka Davanti alla legge trascorre la vita su una panca davanti al palazzo del Re in attesa di essere ricevuto. Quando, ormai in punto di morte, chiede alla sentinella cosa mai avrebbe dovuto fare per ottenere udienza, si sente rispondere dovevi solo entrare.
Diventare adulti è probabile che significhi non aspettare più l’incoraggiamento altrui, neppure quello dei propri genitori, per andare in cerca di se stessi. Un incoraggiamento che magari c’è, ma per timore del giudizio spesso crudele dei figli si esprime in una forma larvale, sussurrata, che per disattenzione non siamo capaci di udire.
E’ esattamente questo spreco di tempo ed energie che ci annichilisce, quando all’improvviso l’oscenità della morte ci sottrae il senso del possibile, che nella nostra percezione prima era infinito. Perché di tempo non ce n’è proprio più.
C’è però, nonostante la mutilazione, il fremito convulso della vita e, dentro la coscienza di essere viva, la certezza che lui è in te. Che lui è te.
Inserito nell’antologia di racconti “Quando i sogni muoiono all’alba”, edita da Tabula Fati, “Lo spreco” di Agata Motta è un testo che lascia solchi di amarezza asciutta e rabbiosa, e, con una scrittura la cui eleganza viene corrosa dall’interno per mezzo di una sostanza acida che la rende ineguagliabile, ci sparge sulla pelle il sale ustorio delle nostre inadeguatezze.
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