IN MEMORIA DI ERMANNO OLMI
Cineasta e umanista
Dai corti ai lunghi. Dai documentari ai lungometraggi, questo è Ermanno Olmi. Un’altalena costruita su un ‘albero degli zoccoli’ che invita gli spettatori a guardare oltre la siepe del loro giardino, a sbirciare il lavoro del contadino che guarda il grano maturare o dell’operaio nella fabbrica che compie azioni meccaniche con sforzo e sacrificio, ma pur sempre cantando la pace sia quella della natura, sia quella dell’uomo ‘dietro i paraventi’. (Roberto Nepoti).
Primavera perentoria e crudele per il teatro ed il cinema italiano, che nel volgere di poche settimane spezza le ultime foglie di vita ad alcuni fra i suoi protagonisti variegatamente più eclettici, impeccabili, professionalmente compiuti- e con la stupida consolazione che nessuno di essi era “in giovane età”. Così, dopo il sapido Luigi De Filippo e la cara Isabella Biagini, dopo Tony Cucchiara (misconosciuto autore di alcune ‘chicche’ del musical italiano) e l’amabile Paolo Ferrari, restiamo “privi” anche di Ermanno Olmi, ultimo grande maestro di “un certo modo di intendere” la regia del cinema, specie italiano, in etica, frugale commistione tra documento ed evocazione, ispirazione lirica e non supponente ambizione ‘didattica’. Particolare, quest’ultimo, che molto lo connette alla remota ma ancora vivida lezione di Roberto Rossellini, secondo il quale il cinema (diversamente da De Sica che confidava nell’improvvisazione, nell’estemporaneo) era ricognizione progettata, divulgativa ed esplorativa “sulle potenzialità creative, cognitive, negate all’uomo da una falsa accezione di modernità”.
Ermanno Olmi dunque: grande artista ‘umanista’ di film (prevalentemente) veristi che raccontarono l’Italia rurale, ancestrale ma non vetusta, anzi vitale, reattiva, istintivamente fidelizzata ad una sua profonda idea (problematica sino al dubbio) di “sacralità irripetibile” della vita in sè. Della natura e del suo mondo animale (l’uomo sempre in cima), in una complessiva concezione etica ed etologia dell’esistente ‘panteista’, salvifico, consolante -anche quando si manifesta nelle sue modalità più empie, ingiuste, dolenti.
Sua cifra espressiva e ispirazione sono state la ricerca del ‘favolistico- sorprendente’, del non preventivabile, del saper porre, in forma diretta o in chiave di apologo, interrogativi essenziali e perenni dell’effimera condizione umana. Pertanto e volendo enucleare nel migliore aggettivo il cinema di Ermanno Olmi sceglieremo ‘imprevedibile’. Evidenziando inoltre che l’interesse per i suoi film venne nutrito – dalla critica e dallo spettatore più lungimirante- sin dalle sue prime opere “di nicchia” (inizio anni sessanta): “Il tempo si è fermato”, “Il posto”, “I fidanzati” alle quali fu applicata la qualifica (rivelatasi poi restrittiva) di “cantore della gente comune, delle piccole cose”- elogiativa se si pensa ad un Ermanno Olmi operante all’interno di un panorama cinematografico (internazionale) motivato dalla frattura dei linguaggi ‘lineari, immediati, non destabilizzanti’ (da Godard ad Antonioni), poco permeabile alla iconografia della quotidianità e alla prolungata, fossilizzante celebrazione del neorealismo (“ne abbiamo goduto sino a strafogarcene”- annunciavano i ‘giovani turchi’ italiani, da Bellocchio a Faenza).
“Nato da una famiglia contadina e profondamente cattolica nella provincia di Bergamo, Olmi rimane orfano di padre durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo aver frequentato il liceo scientifico e poi quello artistico (senza portare a termine gli studi), si trasferisce giovanissimo a Milano per iscriversi all’Accademia d’Arte Drammatica, seguendo però i corsi di recitazione. Ma per guadagnarsi di che vivere si impiega presso la EdisonVolta (dove già lavora la madre) dove organizza il servizio cinematografico dirigendo, fra il ’53 e il ’61, una trentina di documentari, fra i quali “La diga sul ghiacciaio” (1953), “Tre fili fino a Milano” (1958) e “Un metro è lungo cinque (1961)”. In questi anni di lavoro, oltre a notarsi l’intraprendenza e il talento con la macchina da presa, Olmi segna la prima traccia della sua filmografia, vale a dire l’attenzione per l’uomo all’interno di strutture create dall’uomo stesso”- annotano annuari del cinema curati dal caro e compianto Fernaldo Di Giammatteo.
Nei decenni successivi la “tavolozza” di Olmi si ingrandisce però fino a includere i toni e i generi più eterogenei : dal racconto storico all’allegoria, a varie declinazioni della ‘fabula’ nella più complessa accezione esopiana.
Con “E venne un uomo” (1965), biografia di papa Giovanni XXIII, il regista dà spazio al proprio sentire religioso, in una dimensione espositiva estranea alla agiografia, senza particolari compromessi con il mercato del cinema, ma non disdegnando la committenza televisiva. Come infatti avvenne per i successivi “Un certo giorno”, “Durante l’estate”, “La circostanza”, dall’apparenza umbratile ma dalla sostanza problematica, perplessa e soffermata sul cosa potrà esserne dell’uomo e della donna” in un’epoca in cui si intravedono i primi indizi di reificazione, di “utilizzo” ai fini “aziendali” (da antologia, la selezione del personale e l’ ‘aggiornamento’ del personale di mezza età in “La circostanza”). Come poi tanti sanno nel 1977, Olmi realizza quello che, quasi certamente, è il suo capolavoro: “L’albero degli zoccoli”, fiaba contadina che a Cannes vince una Palma d’Oro “di straordinario significato per un film parlato in dialetto bergamasco”, recitato (secondo la raccomandazione di Zavattini) da attori non professionisti, quindi affidato all’espressività seducente e ‘modesta’ di gesti aviti, sinceri, non per questo idilliaci. Promosso alla stima internazionale, Olmi si trasferisce ad Asiago, in provincia di Vicenza, e nel 1982, a Bassano del Grappa, dà vita a Ipotesi Cinema, “bottega del cinema” che collaborerà con la Rai di Paolo Valmarana e sfornerà nuovi registi, fra i quali Maurizio Zaccaro e Roberta Torre che ricordano il loro maestro come “grande, bisgliante incantatore”, la cui autorevolezza era inversamente proporzionale all’esercizio dell’autorità (purtroppo vanesia, e per tradizione, nella moltitudine dei cineasti, ad ogni livello di qualità).
Ammalatosi appena sessantenne e colpito da conseguente depressione, il regista è costretto a restare lontano dal set per un lungo periodo. Tornandovi nella seconda metà degli anni Ottanta con la parabola antiborghese “Lunga vita alla signora!” (Leone d’Argento) e con La leggenda del Santo bevitore” (Leone d’Oro a Venezia) tratto dal romanzo di Joseph Roth, suggeritogli dall’amico e sodale Tullio Kezich (fra i maggiori critici del secolo scorso). I due replicheranno l’esperienza cinque anni dopo coinvolgendo Paolo Villaggio nel (non risolto) “Segreto del bosco vecchio”, crepuscolare ed ecologico (liberamente tratto dal romanzo di Buzzati)
Con l’inizio del millennio, la filmografia di Olmi torna ad innalzarsi con l’apologo antibellico “Il mestiere delle armi” ispirato sugli ultimi giorni della vita di Giovanni dalle Bande Nere; poi con “Cantando dietro i paraventi”, fiaba pacifista in costume orientale (antico ma attuale) interpretata da un inatteso e pertinente Bud Spencer Del 2007 è la parabola evangelica, cristologica “Centochiodi”, che Olmi considera il suo film di narrazione “per meglio dedicarsi al documentario come amore di gioventù”. Non fu così.
Giungeranno magnifiche e possenti l’anticlericale (in senso secolare) “Villaggio di cartone” e, soprattutto, “Torneranno i prati” (2014), “lucida maledizione della guerra” ambientata nelle trincee dell’altopiano di Asiago durante la prima guerra mondiale. I suoi luoghi dell’anima
Attivo anche nella regia teatrale, di Olmi ricordiamo una poetica, frugale e corale “Piccola città” di Wilder al Teatro delle Arti di Roma (oggi trasformato…in garage!) e la regia lirica (alla Scala di Milano) di “Teneke” del contemporaneo Fabio Vacchi, suo collaboratore in “Centochiodi” . Due romanzi al suo attivo, e di buon pregio “Ragazzo della Bovisa” (autobiografico) e “L’Apocalisse è un lieto fine”. Epigrafe della sua innata ma non dogmatica fiducia in ciò che ci attende: adesso e in ‘quel che c’è.. se c’è..dopo’. Gliene restiamo grati.
Ps. Misteriosamente (quasi) irreperibile- e non più riproposto dalle emittenti televisive- a completamento della filmografia di Olmi- occorre citare “Cammina Cammina” (del 1982), film di cui lo stesso regista (come sarà in tante altre occasioni) è “operatore alla macchina da presa”. Film radicalmente evangelico ma non ‘ortodosso’, opera sulla Natività di Cristo in cui “disturbava” la corposità realistica dei suoi personaggi, diversi dai canoni estetici del “santino e immaginetta votiva”. Film sulla difficoltà (non fratellanza?) degli uomini, della loro indolenza, ad intendersi e cooperare. Film-come annotava Gian Paolo Bernagozzi- che segnava a suo modo “il destino di questo autore cattolico”, non di stretta osservanza, “appartato, protestatario e umbratile allo stesso tempo. Un impasto di cultura e psicologia” inattese e fastidiose per la risaputa Italia dei benpensanti\osservanti. (sipario.it)