Un patrimonio sommerso. “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi (1978)

Per rendere omaggio a Ermanno Olmi, scomparso ieri, riproponiamo la recensione de “L’albero degli zoccoli” scritta da Sauro Borelli nel 1978. Addio Maestro, ci sentiremo molto soli.

 

Un patrimonio sommerso. “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi (1978)

L’occhio (la cinepresa) perlustra lento i campi deserti e velati da una trasparente trama di nebbia. È un paesaggio così assorto, all’apparenza acquietato, che sembra un altro mondo. È un altro mondo. (Siamo alla fine del secolo scorso e nella “lontana” Milano i cannoni di Bava Beccaris insanguinano le strade sparando ad alzo zero contro la folla popolare esasperata dalla fame e dalla miseria). È la Bergamasca dove i contadini, pur sfruttati cinicamente da esosi padroni, sembrano persi in un loro tempo “a parte” – la cascina-mondo, teatro di concomitanti, drammatiche vicende familiari – scandito dal fluire delle stagioni, dall’alterno succedersi delle nascite e delle morti, dalla disperante fatica di ogni giorno, confortati soltanto da una rustica, profondissima religiosità intrisa di una panteistica comunione con la terra, con gli eventi fausti e infausti della natura.

Poi, nel graduale scorrere delle immagini, un’epigrafe previene lo spettatore sulla vicenda cui sta per assistere: “Così doveva apparire la cascina lombarda alla fine del secolo scorso. Ci vivevano quattro o cinque famiglie di contadini… La casa, le stalle, la terra, gli alberi, parte del bestiame e degli attrezzi appartenevano al padrone e a lui si dovevano due terzi del raccolto”. Ecco, ora siamo già dentro la cascina, nella campagna a perdita d’occhio, tra i filari di gelsi, incamminati per fangose cavedagne verso il borgo rinserrato attorno alla chiesa, la scuola, la piazza, la casa padronale, l’osteria. Tutti luoghi di una esistenza quasi rarefatta che, insieme, vincola e separa i giorni, gli eventi, gli uomini, le cose.

In una mattina fredda, nella chiesa rimbombante e vuota d’ogni sacralità, un prete rustico carico di una antica sapienza e della autentica parlata popolare (il bergamasco, appunto, al quale si radica originariamente l’ispirazione di questo film, ora proposto sugli schermi anche con una versione ‘in lingua’) rampogna benevolo padre e madre contadini che rispettosissimi ma grandemente perplessi non sanno risolversi se mandare a scuola oppure no un loro bimbetto esile e vulnerabile come un filo d’erba. Il prete li convincerà, ma nei due rimane il preoccupato sospetto di che cosa dirà la gente di tanta ‘novità’: “Un figlio di contadini che va a scuola?”. Ma, intimamente, la decisione conforterà il padre di una gioia segreta, di una fierezza detta appena con le affettuose parole che egli offre al suo bambino come semplice e prezioso viatico: “Alura, ta si cuntent d’anà a scola?” (Allora, sei contento di andare a scuola?).

E di qui il racconto, anzi la storia – ché di un risarcimento storico per i senza-storia di sempre veramente tratta questo Albero degli zoccoli – si dilata con le cadenze e la spoglia suggestione di un ‘adagio’ musicale contrappuntato da bachiane risonanze d’organo (eseguite con esemplare misura da Fernando Germani) in una elegia che, se per un verso, si colora di evangeliche trasparenze, per molti altri evoca con terrena, umanissima solidarietà i triboli, le ansie, le scarne gioie e le inenarrabili sofferenze della condizione contadina.

La vedova che, carica di figli ancora bambini, si sfianca vanamente in una brutale fatica, il pover’uomo che, per aver divelto un albero allo scopo di farne un paio di zoccoli (di qui il titolo del film) per il figlio si vede cacciato dal padrone con tutta la famiglia e le sue povere robe; l’austero e attonito sentimento della vita di due giovani innamorati-sposi di fronte alla dimensione drammatica della Milano fine secolo; la patetica piccineria di un contadino ‘miracolato’ (e poi subito spossessato) dal ritrovamento di una moneta d’oro; i riti e i fatti di ogni giorno e di ogni stagione (l’ammazzamento del maiale, la malattia e la guarigione della vacca, la pioggia, il bucato, il tempo delle primizie) è tutto un denso, fluviale trascorrere di epoche quasi sognate ma non per questo meno vere, vissute, vive.

Si è osservato che L’albero degli zoccoli manca o perlomeno trascura un raffronto diretto esplicito dei dati e, ancor più, della drammatica emergenza di storici conflitti di classe con l’obiettiva subalternità sociale (e di conseguenza politica) del mondo contadino. Il che è forse abbastanza constatabile in questo film, proprio e anche per quel fugace ma significativo scorcio del comizio socialista, visto non a caso come un ‘messaggio’ codificato da un linguaggio e da sollecitazioni ideali quantomeno astratti per la loro effettuale ‘estraneità’ alla realtà fangosa e cruenta del mondo contadino. Ma, c’è da supporre, Olmi non si è proposto visibilmente alcuna lettura ‘politica’ (così come era invece evidente in analoghe prove quali Novecento di Bertolucci e I compagni di Monicelli): e se ciò può costituire verosimilmente un limite preciso, non si deve d’altra parte disconoscere l’indubbio valore di una rimeditazione generosa anche se circoscritta – anzi, proprio per questo! –, di una testimonianza sincera e felicemente ispirata.

L’albero degli zoccoli, a nostro parere, è forse il risultato più compiuto e più intenso che Ermanno Olmi abbia toccato dopo una alacre ma spesso sconcertante progressione. Alle tre opere iniziali (Il tempo si è fermato, ’59; Il posto, ’61; I fidanzati, ’63), infatti ne seguirono nel volgere di un decennio altre che se rivelano, da un lato, la sensibile vena narrativa e l’abile mestiere di un autore ormai maturo, dall’altro palesano anche un approccio abbastanza marginale seppur sorretto da un sincero slancio umanitario i temi e alle questioni capitali tanto del vivere sociale quanto, e ancor più, ai più appartati rovelli di una esistenzialità turbata e inappagata.

Da E venne un uomo (1965), tentativo piuttosto riduttivo di evocare apologeticamente la figura e l’opera di Papa Giovanni, a Un certo giorno (1969), dubbio scorcio del vissuto; da I recuperanti (1969), la sola riuscita rivisitazione sociologica di personaggi, luoghi e vicende ambientate sull’Altopiano di Asiago, a Durante l’estate (1971), un’esile favola morale intrecciata a spuri motivi edificanti, e alla Circostanza (1973), approssimata indagine di un ‘interno borghese’ è tutto un florilegio di buone intenzioni e di buoni sentimenti che, peraltro, svaporano spesso in una sorta di predicazione vagamente evangelica di scarsa o nessuna incidenza sulle drammatiche contraddizioni di una tumultuosa realtà.

Ciò che, però, a Olmi è quasi sempre riuscito resta quel suo attentissimo recupero di volti, di situazioni, di casi tipici del mondo del lavoro e, in particolare, di quello tribolato, complesso e schivo, popolato di operai, di contadini, di piccola gente che del coraggio quotidiano di vivere (o di sopravvivere) hanno fatto un’arma per rivendicare insieme alla loro dignità, un’antica saggezza e una superstite identità.

Basti pensare ai sofferti, amarissimi apologhi di cui sono permeati film come Il tempo si è fermato, Il posto, I fidanzati per avere esatto conto della partecipe consuetudine e fors’anche dell’istintiva solidarietà che questo cineasta sente per la condizione di chi duramente campa i propri giorni. A tale proposito, anzi, è estremamente significativa la risposta che Olmi ebbe a dare, fin dal ’62, alla seguente radicale questione: “Quali aspetti della società in cui vive e del mondo contemporaneo sollecitano più vivamente – in modo diretto o indiretto – la sua attenzione?”. Al che il cineasta replicò con esemplare semplicità: “Il mondo del lavoro, gli uomini che lavorano. Penso che non mi stancherò mai di questo tema straordinario che ne riassume tanti altri”.

Ebbene, L’albero degli zoccoli è precisamente l’opera che incarna e esalta quei suoi vecchi e mai dimessi propositi: Olmi è riandato con amore, scrupolo e rispetto, nelle contrade poco frequentate della memoria popolare e, situandosi sul crinale emblematico tra l’Otto e il Novecento, ci restituisce al vivo facce, gesti, dolori infiniti dei contadini della Bergamasca. Ci sono molte emozioni, altrettante commozioni in questo film e un dovuto risarcimento per ciò che di nobilmente umano scaturì dalle inenarrabili tribolazioni di quel tempo. Le infami discriminazioni di classe, di censo e di condizioni sono qui tratteggiate con pochi, incisivi segni, ma l’abiezione sociale dei contadini si delinea, senza alcuna retorica forzatura netta e tragica nel clima attonitamente sospeso di tante strazianti ingiustizie.

La civiltà del popolo risalta così, per trasparenza, nel turgore di una quotidianità folta di piccoli avvenimenti che, l’uno legato all’altro, ripristinano nella sua autentica dimensione l’epopea ininterrotta dei dannati della terra. L’albero degli zoccoli non contiene, in effetti, né manifeste perorazioni ‘politiche’, né ancor meno l’impeto e l’empito di un cosiddetto ‘affresco sociale’: la sua testimonianza, peraltro, campeggia potentemente proprio per dialettico contrasto tra la pacata sapienza-pazienza del mondo contadino e la brutalità sopraffattrice dei suoi nemici di sempre.

Olmi non cova certamente alcuna nostalgia per quella tragica stagione della condizione contadina: ne rievoca però i modi, l’irriducibile speranza, l’estro creativo, i pudori, le tradizioni, le cerimonie per consegnarci un patrimonio culturale ormai quasi interamente sommerso nel corso della nostra agitata contemporaneità.

È una ‘visitazione’, quella di Olmi che, colta nel suo giusto significato e nella sua precisa dimensione, anche allusiva o elusiva come essa sembra, riecheggia altri codici di vita contadina, della civiltà della terra cui, pur immemori delle nostre radici, continuiamo a richiamarci.