Per rendere omaggio a Ermanno Olmi, scomparso oggi, riproponiamo la nostra recensione di “Torneranno i prati”. Addio Maestro, ci sentiremo molto soli.
La guerra nuda e cruda. “Torneranno i prati” di Ermanno Olmi (2014)
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La grande guerra? Oggi, nel centenario di quel tragico evento, se ne parla. A proposito e non di rado a sproposito. La questione dirimente sta nel fatto che, per complesse contrastanti ragioni, molte trattazioni storiografiche e persino politiche puntano soprattutto a ripercorrere vicende, episodi, personaggi tesi a prospettare un quadro d’assieme certo pertinente, ma viziato da una carenza di fondo: chi e come visse, patì a morte quell’esperienza devastante resta a tutt’oggi, più che un retorico “milite ignoto”, un soldato ostinatamente inascoltato, pregiudizialmente irrilevante, sostanzialmente muto, inespresso.
E’ giusto in questo solco che è nata l’idea di Ermanno Olmi – già meritevole per la sua non effimera attenzione verso il tema della guerra e dei suoi rovinosi strascichi (I recuperanti, Il mestiere delle armi) – di allestire a suggello del centenario della cosiddetta grande guerra un’opera che proprio attraverso lo schermo desse tangibile, veritiero risarcimento ai milioni di uomini che in quell’”inutile strage” (come ebbe a dire il Papa di quell’epoca) perdettero, oltreché la vita ogni loro identità e ragione esistenziale senza colpa, né consapevolezza.
Eloquente suona, al proposito, ciò che Olmi accampa per il suo prodigo ripiegarsi sulla mistificata storia di tante vittime sui campi di battaglia: “Questo è un film che mi hanno proposto e il mio pensiero è andato a mio padre che quand’ero bambino mi raccontava della guerra dove era stato soldato… Allora come oggi i conflitti nascono per il potere e la ricchezza di pochi. I nemici non sono nella trincea di fronte, sono quelli che hanno mandato i nostri soldati ad uccidere uomini come loro”. Parole esemplari cui fanno eco quelle non meno strazianti di Claudio Santamaria (tra gli interpreti di Torneranno i prati): “Un film non sulla guerra, ma sul dolore della guerra”.
In questo senso, va ricordato (oltre le quasi automatiche citazioni dei grandi film antimilitaristi del passato: All’Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone e Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick) il memorabile “precedente”, l’illuminante “prologo” del capolavoro di Charlie Chaplin Il grande dittatore che così, in estrema sintesi, rammentiamo: “1918. Charlot va in guerra, subisce un incidente aereo. Dimesso dall’ospedale dopo lungo tempo trova la Tomania sotto la dittatura di Adenoide Hynkel. Riapre nel ghetto (è ebreo) la sua bottega di barbiere e si innamora di una ragazza orfana, Hanna…”. Il resto è ampiamente noto, come altrettanto risaputo è l’imprevisto messaggio insieme ironicamente demolitore e struggentemente poetico.
In realtà, Olmi non indugia né indulge minimamente in alcuna suggestione trasfiguratrice, in questo suo Torneranno i prati, strutturato (nell’arco di 80’) come un rendiconto austero, rigoroso dello scorcio cruentissimo – una notte del 1917 sul fronte Nord-Est dell’Italia – in un appostamento trincerato oggetto di durissimi bombardamenti popolato da una sparuta schiera di soldati mal equipaggiati e peggio orientati da dissennati ordini di generali inetti, irresponsabili.
L’incipit di Torneranno i prati è assolutamente abbacinante: tra le montagne innevate il silenzio, la luce lunare, il parossismo di ghiaccio danno uno choc emotivo immediato, sconvolgente. Le successive alternanti inquadrature mettono in campo via via soldati, ufficiali letteralmente stravolti in mansioni illogiche, fuorvianti. Ma ecco, nella notte piena e silenziosa si leva (quasi magica) la voce solitaria di un soldato che canta con passione Tu ca nun chiagne suscitando nei commilitoni rintanati in trincea un fugace attimo di dolcezza che allevia all’intorno il persistente dolore di una condizione disumana. Poi, nel ridotto della trincea attrezzata si succedono tanti altri fatti che danno tragica dimensione alla disperata vicenda di uomini destinati, incolpevoli, al massacro incombente.
C’è, ad esempio, il soldato che con strenua dignità proletaria si uccide davanti all’ufficiale che voleva indurlo a una missione impossibile; c’è, ancora, il capitano scosso dalla febbre che dinanzi al maggiore conformista che lo comanda declina ogni obbedienza e restituisce gli emblemi del suo ruolo di ufficiale; e c’è, inoltre, il soldato allettato dalle promesse dell’ufficiale (una licenza, una somma di danaro, un accresciuto riguardo per la sua famiglia) che si offre “volontario” per una rischiosa sortita dalla trincea. E che, appena allo scoperto, viene inesorabilmente abbattuto da un cecchino nemico. Ci sono, poi, tutti i gesti, tutti i pensieri che animano, agitano i soldati in attesa non si sa di che, al di fuori della preordinata, irrazionale conduzione della guerra da parte del comando generale sempre pronto a rampognare, ad esigere imprese assolutamente incongrue, impossibili.
Girato – grazie alla preziosa collaborazione del più giovane cineasta Maurizio Zaccaro e al contributo generoso di attori quali Santamaria e Alessandro Sperduti, oltre i numerosi interpreti non professionisti – Torneranno i prati si impone subito autorevolmente tanto per l’afflato ideale che lo sottende, quanto per il severo essenzialissimo smalto con cui – pur tra “interni” ed “esterni” ora cupi ora folgoranti passo passo incastrati l’uno all’altro secondo una meccanica drammaturgica perfetta – approda ad una evocazione della guerra nuda cruda che risulta, in definitiva, un grido di dolore e, insieme, una rivendicazione di giustizia di dovuta improcrastinabile memoria. Tanto da consentire col poeta Giuseppe Ungaretti che, giovane soldato, da San Martino del Carso scriveva ispirato: “…nel cuore / nessuna croce mi manca / E’ il mio cuore / il paese più straziato”.