Il fantasma della realtà. “Ready Player One” di Steven Spielberg
Come si fa a parlare di Steven Spielberg, questa sorta di tetraesaedro pieno di spigoli e di facce oblique, in modo univoco seguendo una traccia logica definita? Be’, si parla d’altro, del suo metodo di fare film di quando in quando basati sull’impegno (i recenti Il ponte delle spie, The Post), sull’avventura (Jurassic Park), sulla fantascienza (Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T.) e, in altri termini, di una tendenza consapevole della necessaria vena eclettica.
In tanta commistione di opere, di massima contrassegnate da un lato da innovatori spunti narrativi e dall’altra dalla mai dimessa maestria registica, Steven Spielberg, oggi al traguardo di oltre settant’anni, viene a proporre un’altra delle sue originali sortite con il nuovo, lambiccatissimo Ready Player One, una storia fatta di plurimi personaggi, di intrecciate esperienze esistenziali, in un turbinio di movimenti, di vicende diradati nel tempo distopico del 2045, un’età, questa, non tanto avveniristica, quanto immaginaria popolata di simulacri, di ectoplasmi affioranti dalla surrettizia realtà virtuale già oggi insinuatasi nei nostri giorni, nelle nostre suggestioni gregarie.
Il dipanarsi di un rendiconto fitto di figure, di fatti ricorrenti si proporziona affannosamente sullo schermo attraverso le identità già emergenti dal romanzo omonimo di Ernest Cline (cui Spielberg si è rifatto per l’occasione) non a caso già cultore di musica pop e di internet. E, secondo moduli narrativi di un bric à brac insistito quanto riconoscibile, Spielberg evoca di volta in volta i protagonisti di un fosco dramma che ora si disunisce, ora si aggrega prospettando un mondo malato di tutti gli endemici guasti tipici del futuro prossimo emblematizzato nell’anno 2045.
È una realtà frantumata quella cui Spielberg imprime le stimmate di un periodo marcato da indigenza, alienazione, guerre, disastri ambientali e lo popola di sintomatiche figure di individui destinati a soggiacere al peggio, salvo ricorrere all’espediente di immergersi interamente nella dinamica dell’Oasis, un marchingegno virtuale inventato dallo scafato James Halliday (presto deceduto) per sopperire a qualsiasi esigenza vitale. Tanto da indicare come efficace strumento per salvare il salvabile gli Easter Egg, specie di “sorprese” specifiche inventate sempre dallo scomparso Halliday per superare comunque l’impasse della desolata prospettiva di soccombere alla realtà autentica.
Protagonisti ed eroi senza alcuno spessore epico risultano in questo frammischiato ordito tra l’avventura e la fantascienza l’adolescente Wade, la coetanea Samantha (avatar rispettivamente: Perzival e At3mis) più altri tre amici (Haech, Daito, Shao) e ancora il boss della multinazionale IOI, Nolan Sorrento, determinato a conquistare l’intiera Oasis con tutto l’immenso potere e il tesoro (cinquecento miliardi di dollari) che essa contiene.
Come si può constatare, Ready Player One rappresenta tramite una soverchiante serie di citazioni cinematografiche caratteristiche degli anni Ottanta-Novanta (in primis, Kubrick, poi Zemeckis e lo stesso Spielberg) una tranche de vie interamente giocata su illuminazioni, trasparenze virtuali destinata a perpetuarsi solo in sé stessa e nient’altro che una temeraria “traversata del deserto” costituito dal temibile 2045.
Si direbbe, in conclusione, che – al di là di ogni ipotetico progetto morale – questa volta Spielberg abbia voluto dare fondo alle molteplici inquietudini, agli infiniti rovelli della nostra agitata, allarmata contemporaneità, ma anziché lanciare segnali incisivi verso possibili strategie di redenzione ha scelto di oggettivare la propria posizione in una balzachiana “commedia umana” effigiata esclusivamente nella fuga dalla vera realtà, per toccare l’esiguo approdo di quella virtuale. Soltanto che Balzac operava su una materia viva e vibrante, mentre Spielberg esercita la sua sapienza metaforica su un mondo refrattariamente presunto. L’unico praticabile e ravvicinato.