Le lucciole di Baldovino. “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello alla Pergola di Firenze e dal 4 aprile al Quirino di Roma

Le lucciole di Baldovino. “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello alla Pergola di Firenze

e dal 4 aprile al Teatro Quirino di Roma

regia Liliana Cavani

assistente alla regia Marina Bianchi

scene Leila Fteita

costumi Lina Nerli Taviani

luci Luigi Ascione

musiche Teho Teardo

con Geppy Gleijeses, Vanessa Gravina, Leandro Amato, Maximilian Nisi, Tatiana Winteler, Giancarlo Condè, Brunella De Feudis

Gitiesse Artisti Riuniti in coproduzione con Fondazione Teatro della Toscana

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Al centro di una di quelle vicende passionali e borghesi, spesso clandestine, che tracimano verbosamente dai copioni di Pirandello, sostenute da strutture dialettiche in avvitamento verticale sempre più stringente, viene questa volta condotto Angelo Baldovino. Un uomo caduto in disgrazia, giocatore, dissipatore, inseguito dai creditori, immorale, eppure dotato di un’intelligenza combinatoria talmente insolita da conquistare, durante una passeggiata notturna punteggiata di lucciole, l’immaginazione di Maurizio Setti fino a convincerlo di avere di fronte l’uomo adatto a sposare, per finta, Agata Renni, amante del Marchese Colli, concitato individuo afflitto da una moglie di cui lamenta le persecuzioni. Tale finzione è resa addirittura urgente dalla gravidanza di Agata, poco propensa a convivere, sia pure in modo platonico, con un estraneo, tuttavia incalzata dall’insistenza, un poco ondivaga a dir la verità, della madre e del Marchese, nonché da quella assai più convinta di Maurizio, cugino di Fabio Colli.

Queste disavventure della coscienza legate a un contesto provinciale di onorabilità e maldicenze, escono dai cardini dei processi mentali consuetudinari nel momento stesso in cui Baldovino, dapprima silenzioso e rigido, facendo piano piano ruotare il cappello fra le dita come per raccogliere le idee, varca la soglia del salotto di casa Renni. Si mostra fin dalle prime frasi, studiate accerchianti implacabili, come un computista cartesiano amareggiato da un dolore esistenziale tenuto sotto stretto controllo per mezzo di vertiginose argomentazioni che stendono sui fenomeni, mostrandone le forme nascoste, una luce inusitata (vibrano entro le connessioni mentali la misura e la mimesi aristotelica, intesa come imitazione della forma ideale della realtà, di Geppy Gleijeses).

Appare sottilmente sardonico nell’estrema educazione, mentre interroga il Marchese cercando le domande in un taccuino che trae dalla tasca della giacca. Pone, per accettare, la condizione della chiarezza estrema, ossia di poter diventare il baluardo di quell’onestà che il Marchese non ha saputo incarnare e difendere. Il tiranno, la sentinella, l’ombra intransigente. Perché il patto lo fa diventare tale, un’ombra, un’entità priva di vita propria, una figurazione tanto più reale quanto più inflessibile. E, nello stesso tempo, lo fa assurgere a una sorta di leggerezza, di distacco dal corpo e dall’identità determinata anche dal corpo, di moralità ascetica esemplare che gli fa provare il piacere dei Santi negli affreschi delle chiese. Pura forma, pura logica e volontà. Ci troviamo a pochi passi dalla scomposizione del pensiero, reiterante ossessivo, paradossalmente imbevuta di umorismo tragico, operata da Thomas Bernhard; citiamo, a titolo di esempio, la matematica follia di “Camminare”: “Se noi ci immaginiamo una condizione mentale, una qualsiasi, siamo in questa condizione mentale e quindi anche nella condizione patologica che immaginiamo, in ogni condizione in cui ci immaginiamo di essere.”

Purtroppo, a questo punto, come notò Antonio Gramsci in un articolo del 1917 scritto per L’Avanti, “la commedia ha una svolta pericolosa e un po’ confusa. Le reazioni sentimentali hanno il sopravvento”. Infatti, nella parte finale è la nuda trama a diventare protagonista, l’intrigo fitto di imbrogli sovrapposti, palpiti d’amore inaspettati e di un ritorno alla vulnerabilità commossa della tanto deplorata carne da parte di Baldovino.

Se un appunto si può muovere all’essenziale allestimento di Liliana Cavani, è quello di avere utilizzato la scenografia soltanto come elegante cornice, mentre, dopo le versioni pirandelliane indimenticabili e innovative di Missiroli, Cobelli, Castri e Cecchi, appare necessario che le scene parlino insieme agli interpreti.