Una città di carattere. Catania in un ritrovato romanzo di Mimmo Trischitta

Il Libro

UNA CITTA’ DI  CARATTERE

“Una raggiante Catania”

 di Domenico Trischitta. Ed.Excelsior 1881. Pag.187. Euro 13,50

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Vi sono città dove immagino che nascere sia blando, altre in cui il lieto evento ha già uno scenario cruento. Non importa quando, in quale quartiere, in che fascia sociale. Ciascuna ha i suoi risvolti terribili, i suoi riti di iniziazione (alla vita) ad alto tasso di disumanità.

Non azzardo classificazioni di tipo sociologico. Mi limito a testimoniare, a ricordare.

Catania, purtroppo, è città di carattere, di pessimo carattere (come se, personalizzandola, chiedessi aiuto a Longanesi), il cui humus primigenio è quello della passionalità accecante, dell’appartenenza tribale, dell’affarismo pirata, del homo (sapientissimo) disponibile a farsi carnefice del suo vicino.

Sarebbe ozioso e fuorviante indagare sul per come e sul perché, sul donde e sul dove, sul cui prodest e su chi –in omertoso silenzio- ne subisce l’iniquità.

Catania è città cruenta. Dalla quale si può venir via o accomodarsi, accodarsi o ribellarsi. Raramente (tranne in qualche elegiaca “passeggiata” di Lucio Sciacca o nel “Diario siciliano” di Ercole Patti) soggiornarvi pacatamente o con vena e rimembranze romantiche. Catania non è città vivibile o invivibile: o ci sguazzi dentro, a crepapelle, sino alla fine dei (tuoi) giorni o te ne ustioni e ne trascini via le cicatrici ovunque ti capiterà di attendarti. Non a caso molti catanesi amano (come me) la vita nomade, e –potendoselo permettere- d’albergo.

Presumo (spero) che Domenico Trischitta sappia tutto ciò, per vie di raziocinio o per doni d’istinto. Presumo (spero) che sappia di vivere su una “polveriera” solare e stramazzata, allettante e marina: sotto un vulcano che la sovrasta determinandone umori e fandonie- gli stessi che bizzarri uomini di scienza eleggono a causa carsica, sulfurea, di madre natura (quanti vapori inesplosi defluiscono dai piccoli crateri sino alla piazza con l’Elefante…) di tanta labilità violenta, allegria fescennina che si stappa in disperazione, baldanze mascoline che rannicchiano poderosi putiferi di identità sessuale, ritualità del santo litigio d’ogni giorno (a lavoro, in famiglia, imbottigliato nel traffico) ignari del   come e se si arriverà stremati a tarda sera?

Domenico Trischitta, che già apprezzammo da drammaturgo e scrittore di racconti eleusini (per chi non conosce i riti, i silenzi, le intese monosillabe, o da singulto, della quotidianità cittadina: feroce verso chi  ne sconosce i codici espressivi); Trischitta, si diceva, ha scelto di vivere e di raccontare la “sua” Catania, dando ordine e progressione “sparsa” alle tappe di un’educazione (sentimentale, esistenziale, professionale) che non potrebbe prescindere, né mai lo vorrebbe, dal rapporto viscerale, quindi irrazionale, che lo lega alla città. Tra le cui pieghe, anfratti, tranelli sa muoversi con l’astuzia della faina ed il coraggio del giovane leone che capisce di potercela fare , di  dovere, dopo tutto, restare, sicuro che i “riconoscimenti” prima o poi arriveranno. Cos’è che riscatta e sublima tale certezza e scelta di campo, dal punto di vista squisitamente letterario? La capacità, io credo, di elaborare un dispiegamento di stile del tutto personale ed accattivante, moderno ma non tracotante, mimetico (rispetto all’ambiente prediletto) ma capace di svestizioni velocissime, roventi, di notevole capacità spiazzante.

 Come quando l’almanaccare “i giorni a Calòria” (la citazione è personale e del tutto brancatiana) si nutre di aneddoti, rilevazioni, primi piani o panoramiche distaccati e anaffettivi, come fossimo in un film di Wenders; o la sua prosa “consustanziale” eppur eccentrica, stralunata deambula, come in una sorta di giovanile “Satyricon”, senza furori e nostalgie, sentimenti acerrimi o dolori da Werther. Invertendo letteralmente a ‘U’ la linearità della descrizione, della cronaca in diretta  come frattura di nesso e consequenzialità all’interno di una reminiscenza che si fa indice di una nevrosi “fredda”, stranita, attardata per vicoli e rioni (“Fissai per un attimo la statua di Bellini, in piazza Stesicoro….bevvi un seltz al limone. Poi mi stancai”-si legge già nella quarta di copertina, a scanso di smentite).

 Dotato di prosa sincopata, acuminata, jazzistica- mai disturbata da accenti polemici, pacificata ma sempre in guardia verso il “recinto” urbano- Trischitta scrive come nel dormiveglia d’un combattente, assopito ma da un occhio solo. E racconta con destrezza la banalità e irripetibilità, per ciascuno, degli accadimenti della vita: l’infanzia, la scuola, gli amici, gli amori, le delusioni, il teatrino di comitiva, il viaggio a Stoccarda, il sacco di San Berillo, il lavoro ingrato. Citando nomi e toponimi, circostanze e percorsi, forse alla ricerca di un “redde rationem” che non a caso accadrà durante, in sottofinale, le feste errabonde della patrona Sant’Agata, disperso alla folla dei devoti e docilmente raccolto (mi viene in mente il prof. Unrat dell’”Angelo azzurro” ed Heinrich Mann) nelle aule deserte del liceo dove gli capitò (anche) di studiare.

 E dell’idea che non si nasce impunemente in certe città (che dirvi? Napoli,  Chicago, Pechino,  Palermo), della impossibilità di catalogarle a furia di aggettivi e appellativi (ogni luogo di per sé è neutro, se non fosse per chi lo abita, per le micro-storie di una memoria genetica), Trischitta elabora benissimo il tema del sarcasmo soffuso, della comicità o del paradosso involontari. Optando per quel “raggiante” che sta solo nella testa concittadina, a suo modo geniale, di Carmen Consoli, e che è tutto un programma di renitenza al soggiorno (quand’esso, col passare del tempo, diverrà obbligato).

 

*La pima edizione del romanzo di D. Trischitta è del 2008 (meriterebbe una ristampa…)