Oscurità e lucentezza onirica in “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio (2003)

A quarant’anni dal rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, mentre si moltiplicano “scoop”, ricostruzioni, congetture, ritrovamenti tardivi di materiali, nuovi testimoni, riproponiamo icasticamente le nostre note su “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio.

 

Oscurità e lucentezza onirica in “Buongiorno, notte” di Marco Bellocchio (2003)

Regia Marco Bellocchio

Con Roberto Herlitzka, Luigi Lo Cascio, Maya Sansa

 

E’ un gioco da bambini, all’inizio. Un trafficare muto e sordo intorno alla costruzione di un rifugio segreto, un antro nascosto dietro la libreria di un appartamento comune, banale, borghese. Nascondersi per essere visti dai grandi. Si sente, sotto la pelle, la rabbia euforica di chi sottrae e nasconde qualcosa che ritiene indispensabile per arrivare ad essere guardato e riconosciuto attraverso la parola diretta della trattativa. E le prove generali del dialogo vis à vis sono un goffo, patetico, infantile tentativo di imitazione della forma del linguaggio del potere: monolitica, minacciosa, ottusa.

Ma l’essenza demoniaca del potere è mimetica, può assumere ogni forma e adottare ogni linguaggio, è infinitamente sottile e mutevole, si nutre persino dei nemici. Così i quattro dipendono dalla presenza ossessiva del televisore acceso, guardano e ascoltano con un senso di onnipotenza o di delusione le maschere contrite e murate, intente ad allestire l’ennesima farsa sanguinosa, a prendere il controllo di un incidente assai opportuno e a servirsene per sopprimere in modo definitivo qualsiasi dissenso.

Il volto vero del potere viene mostrato durante la seduta spiritica organizzata in un salotto soffocato da mobili e tendaggi, simbolo di tutti i salotti romani: la faccia quasi immobile, calcinata, corrosa dal cinismo del medium improvvisato, burlone luciferino.

Comincia una caduta sempre più veloce. La luce del giorno, che nella prima parte del film si posa sulle lenzuola color crema appena tolte dal letto e aggrovigliate, cede a un buio d’inferno, goyesco, dal quale, a tratti, emergono volti in frantumi e gli occhi dell’unica ragazza del gruppo. Proprio questo sguardo, a poco a poco, lascia entrare lo sguardo dell’inerme (Aldo Moro, ma anche il neonato che viene lasciato per pochi minuti nell’appartamento all’inizio del film), pacato, colmo di una dolcezza paterna, e ne viene modificato.

Questa mutazione progressiva si accentua durante l’incontro, in biblioteca, con il giovane autore di Buongiorno, notte (un doppio di Bellocchio) che critica e comprende; i libri cadono e cadono di nuovo e ancora, e cadendo scompaginano le ideologie e addolciscono le durezze fino a far ridere la ragazza. Solo chi critica e comprende è davvero pericoloso per il potere. Nel labirinto in movimento di scaffali scale ascensori corridoi sarà il giovane ad essere arrestato, trascinato via da una corrente di poliziotti  silenziosi.

Così come una corrente porterà i tre terroristi a uccidere il prigioniero. A questa forza meccanica si ribella la ragazza, cercando la propria libertà e quella di Moro nel sogno. Sogna se stessa vegliata amorevolmente dall’inerme, sogna musiche ariose, sogna, la notte della condanna, di mettere del sonnifero nella minestra dei compagni e lasciare aperta la porta del nascondiglio, in modo da permettere al prigioniero di indossare il cappotto e andarsene tranquillo. Sogna Moro mentre si allontana con calma, le mani nelle tasche, respirando e guardando la pioggia fine.

Mentre sogna la libertà, i suoi tre compagni portano fuori Moro, bendato. I due finali si alternano: l’oscurità sfocata, pesante di ciò che si pensa sia la realtà svanisce davanti alla lucentezza mozartiana del sogno.