La danza dei destini incrociati. “Foxtrot” di Samuel Maoz, Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia 2017, al cinema dal 22 marzo distribuito da Academy Two
Due ufficiali dell’esercito israeliano si presentano alla porta di casa di Michael e Dafnaper informarli della morte del figlio. Questo è il prologo che dà il via a un intreccio di spiraliche sofferenze.
La storia, inizialmente semplice, pian piano prende i contorni della tragedia greca. Michael non può sfuggire al furore delle Erinni che da vent’anni esigono vendetta. Nessuno può ingannare il Fato, a maggior ragione chi baratta la Bibbia per una rivista erotica. E come avviene nel ballo foxtrot, dopo quattro passi si ritorna sempre al punto di partenza.
Foxtrot è un’opera intensa e stratificata, tanto da sembrare composta da due film diversi (uno realistico e uno più simbolico/evocativo). Lo stile, raffinato e sinuoso, ricorda il cinema europeo degli anni ’70 e in particolar modo quello di Visconti e Fassbinder, del resto non può essere casuale quel movimento della macchina da presa così simile alla famosa carrellata a 360° di Martha.
Maoz non è caduto nella trappola di veicolare il messaggio antimilitarista attraverso l’ideologia. Non si entra mai nel merito del conflitto israelo-palestinese anche se è un fantasma sempre presente. Per il regista la guerra è inutile e grottesca, si può morire per niente, anche per una lattina di birra scambiata per una granata.
La società israeliana che emerge dal film è angosciante e claustrofobica, come se ci trovassimo in un universo distopico a metà strada da Kafka e Orwell. Il perpetuo stato di guerra annulla l’identità, i morti come i vivi sono solo nomi intercambiabili, non c’è nessuna pietà davanti alla sofferenza della perdita, solo moduli da compilare correttamente.