Umberto D., Marx e la poesia
20 Gennaio 1952 – Prima, a Roma, di “Umberto D.”, capolavoro di Vittorio De Sica.
Considerato l’atto di chiusura della grande stagione del cinema neorealista italiano, il film di De Sica raggiunge vette poetiche difficilmente eguagliabili. Infatti, nel raccontare la triste parabola dell’anziano pensionato Umberto Domenico Ferraro, costretto da una infima pensione statale a meditare il suicidio, il grande regista ciociaro mette in scena non soltanto la condizione di disagio materiale del protagonista, ma anche quella esistenziale. Il tutto lavorando per sottrazione, non lasciando spazi a vuoti e facili spettacolarismi, anzi esaltando l’essenzialità del gesto, condizione indispensabile per calare lo spettatore dentro la nuda realtà.
Rinunciare a quella stanza abitata per 20 anni avrebbe significato per Umberto D. dover abbandonare il suo fidato cagnetto Flaik, per lui l’unico sentimento cui potersi dedicare, accudendolo. La tracotanza della padrona di casa, l’indifferenza di amici ed ex colleghi sono le coordinate attorno a cui si muove la solitudine di quest’uomo quando, in una società in cui il denaro conta più di tutto, si ritrova solo senza alcuna speranza, perso in un vuoto che non è solo di cose ma, soprattutto, di affetti. Soltanto la giovane cameriera della pensione solidarizza con lui, ne condivide le pene, essendo essa stessa l’ennesima vittima di una condizione sociale spietata e senza vie di uscita.
Sembra proprio che il geniale sceneggiatore-poeta Cesare Zavattini, qui all’epifenomeno della sua “teoria del pedinamento”, scrivendo l’ennesimo capolavoro per l’occhio magico di De Sica, dopo “Sciuscià”, ’46, “Ladri di biciclette”, ’48, e “Miracolo a Milano”, ’51, abbia, narrativamente, travasato nella scrittura filmica la teoria marxiana delle strutture e sovrastrutture, per la quale in un sistema sociale basato sul Capitale non c’è spazio alcuno neanche per i sentimenti.
In questo senso, “Umberto D.” non è da meno dello spietato “Monsieur Verdoux”, 1947, di Charlie Chaplin. E non è certo un caso che entrambi i film finirono nelle maglie della censura.Quella parolaia di Andreotti per il film di De Sica, quella ben più dura di McCarthy per Chaplin, costretto all’esilio. Cinema d’arte senza tempo né spazio, purtroppo e per fortuna capace di cogliere una volta per tutte l’essenza stessa dell’essere umano costretto in un mondo così diverso da quello che avrebbe meritato.