Niente rose per Miss Fontaine

Niente rose per Miss Fontaine

Recensendo di recente Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson abbiamo ricordato che il cineasta californiano ha voluto rendere omaggio, con lo stesso film, al prestigioso Max Ophuls e, in particolare, al suo memorabile capolavoro Lettera da una sconosciuta, raccordando persino con qualche dettaglio la nuova pellicola alla citata opera del 1948. per di più, ci è occorso di menzionare per l’occasione che Ophuls si era avvalso per quella significativa realizzazione (ispirata a Stefan Zweig) di un’attrice sulla cresta dell’onda allora sia per la smagliante bellezza, sia per l’accertata bravura: Joan Fontaine (1917-2013).

Ora, ripensando a quella circostanza, ci è venuta l’idea di recuperare l’intervista da noi fatta alla stessa attrice nell’aprile del 1989 a Salsomaggiore in concomitanza di una piccola retrospettiva dedicata appunto ad Ophuls. E tale proposito ci sembra più che mai interessante, dal momento che l’ormai scomparsa Joan Fontaine (nel dicembre 2013) palesò con lucida schiettezza i suoi personali convincimenti sia sulla sua attitudine professionale, sia sui personaggi frequentati (Hitchcock, Cary Grant, Clint Eastwood) e sulle esperienze vissute con intensa partecipazione. Ecco, dunque, pressoché integrale l’intervista in predicato:

“Non mi faccio illusioni sul fatto che l’età, le asprezze della mia professione, i sogni infranti hanno lasciato i loro segni…” Così Joan Fontaine, già star tra le più amate della Hollywood d’antan, nella sua biografia dal sintomatico titolo No bed of roses, nessun letto di rose, pubblicata a Londra nel 1978.

Varcata l’allarmante soglia dei settanta anni, Joan Fontaine ribadisce, impavida e cordiale, quella sua rivelatrice dichiarazione. L’abbiamo incontrata qui, al 12° Festival di Salsomaggiore, ove gioca il ruolo privilegiato di guest star proprio in forza della riproposizione di due tra i suoi film maggiormente noti e divenuti, col passare degli anni, degli autentici cult movie. Parliamo, s’intende, del magistrale lavoro di Max Ophuls Lettera da una sconosciuta, ispirato ad un racconto di Stefan Zweig e della originale prova registica di Ida Lupino nell’opera del 1953 La grande nebbia.

Un vestito coloratissimo, gentile e sorridente con calibrata misura, Joan Fontaine si presenta come una attempata signora che incute subito simpatia e rispetto. Benché raffreddata, si mostra peraltro del tutto disponibile a conversare, a dilungarsi sulla sua carriera, sulle esperienze più o meno felici, nel cinema e fuori. Uniche tassative condizioni preliminari non fare assolutamente cenno ai tempestosi rapporti sempre intercorsi con la sorella anch’ella attrice Olivia De Havilland: contenere l’incontro nell’arco aureo di mezz’ora. Non di più.

Al primo approccio, un accorato, sincero, dispiacere affiora nelle sue parole allorché le viene detto che è scomparsa ieri, nella sua casa in Cornovaglia, l’ottantaduenne scrittrice Daphne Du Maurier, a suo tempo celebre per il romanzo thrilling-sentimentale La prima moglie, da cui il grande Hitchcock trasse nel 1940, il film Rebecca, protagonista incontrastata, appunto, Joan Fontaine. “Era una persona che mi era molto cara. Dieci anni fa andai a trovarla. Non era in buona salute. Mi disse subito: non scriverò più romanzi, né storie immaginarie. Resta troppo poco da vivere. Debbo quindi badare ai fatti autentici, alla realtà palpitante della vita”.

Già. Lei personalmente, chiediamo di rincalzo, ha conosciuto, conosce molti divi, tanti personaggi importanti. Che cosa pensa, ad esempio, del già idolatrato ed oggi chiacchieratissimo Cary Grant? Oppure dell’ancora vitalissimo Clint Eastwood attore-produttore-regista fortunato ed oltretutto sindaco per qualche tempo di Carmel, dove lei stessa risiede abitualmente in America? “Cary Grant? Una personalità composita, un grande attore. Come avrebbe potuto lavorare altrimenti con tanta assiduità con Hitchcock? Quanto ad Eastwood, va detto che oltre a realizzarsi al meglio come attore, regista, produttore si è rivelato anche un ottimo amministratore pubblico. Ha profuso centinaia di migliaia di dollari per preservare Carmel dalla speculazione edilizia. Certamente è tra i pochi in America e altrove dotati di uno spiccato senso civico.”

Signora Fontaine, lei ha vinto l’Oscar con Il sospetto di Hitchcock, ha avuto gratificazioni e consensi a non finire nella sua lunga, ricca carriera. Attualmente ha scelto di stare fuori dal cinema e dal teatro? “Il cinema ormai è troppo diverso da quello di un tempo. Inutile starci a pensare. Una scadenza probabile è invece l’interpretazione sulle scene di una nuova pièce della commediografa americana Tina Howe. Lo spettacolo dovrebbe andare in scena nel prossimo autunno a Londra”. Un appuntamento, questo, da non mancare, anche perché Joan Fontaine è ben consapevole, oggi come per il passato, della sua identità, del suo destino. Specie quando ribadisce, lucida e risoluta, come fa nella sua autobiografia: “Essendo insieme donna e attrice non posso dire che la mia vita sia stata un letto di rose. Ci sono state molte vicissitudini, molte frustrazioni, molti riconoscimenti… ho sentito dire che qualcuno doveva mettere ordine in tutti quei racconti. Potevo ben essere io… Non barerò”. Non ne dubitiamo signora Fontaine. E buona fortuna forever. Sinceramente.