La ballata dolente di Mildred Hayes. “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh (vincitore 2 Oscar 2018, Toronto Film Festival, 5 premi BAFTA e 4 Golden Globes)

La ballata dolente di Mildred Hayes

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Genere: commedia, drammatico, poliziesco

Titolo originale: Three Billboards Outside Ebbing, Missouri

Paese/Anno: GB, USA | 2017

Regia: Martin McDonagh

Sceneggiatura: Martin McDonagh

Fotografia: Ben Davis

Montaggio: Jon Gregory

Interpreti: Abbie Cornish, Amanda Warren, Caleb Jones, Clarke Peters, Darrell Britt-Gibson, Frances McDormand, John Hawkes, Kathryn Newton, Kerry Condon, Lawrence Turner, Lucas Hedges, Malaya Rivera Drew, Michael Aaron Milligan, Nick Searcy, Peter Dinklage, Sam Rockwell, Samara Weaving, Sandy Martin, Woody Harrelson, Zeljko Ivanek

Colonna sonora: Carter Burwell

Produzione: Blueprint Pictures

Distribuzione: 20th Century Fox

Durata: 110′

Data di uscita: 11/01/2018

 

Sulla Drinkwater Road, dopo l’uscita Sizemore, avvolti nei panneggi immobili della nebbia, tre enormi cavalletti per l’affissione di manifesti pubblicitari stanno tornando al loro primitivo stato di scheletri lignei. Restano pochi riquadri colorati, vecchi di trent’anni e scoloriti, a immalinconirsi nel silenzio mescolato alle note di Last Rose of Summer. Ci troviamo poco fuori Ebbing, nel Missouri, una di quelle cittadine derelitte situate nel cuore del Midwest formate da un’unica strada rettilinea ai cui lati stanno appollaiate casette dalla struttura uniforme, guardinghe e predaci come avvoltoi.

Luoghi in cui nessuno arriva e dai quali nessuno riesce a fuggire, poveri e prevalentemente rurali; microcosmi all’interno dei quali ronzano disperati e aggressivi, sempre sul punto di deflagrare in violenza sterile, sentimenti di frustrazione e dolore.

A Nord le pianure vanno a unirsi a quelle dello Iowa e del Nebraska; la parte meridionale, facendo parte del bacino del Mississippi, è la più bassa e piovosa. La più retriva e legata al passato schiavista.

Alla Drinkwater approda solo chi ha perso la strada o è in ritardo, oppure chi la percorre ogni giorno per tornare a casa, come Mildred Hayes, il cui sguardo, velato da quella particolare pena senza fine e senza sbocco che caratterizza il senso di perdita, si posa una mattina, casualmente, sui tre cavalletti inutizzati. Decide di prenderli in affitto e commissionare tre manifesti, essenziali scritte nere su fondo rosso, contenenti domande provocatorie e precise alla polizia locale, dirette in specie allo sceriffo Willoughby, sui motivi per i quali, dopo un anno, non siano ancora stati trovati e arrestati coloro che hanno stuprato e ucciso la figlia, dandole fuoco.

Il locale comando di polizia, in particolare lo sceriffo, rappresenta però il cuore pulsante della piccola comunità, ammirato e considerato un baluardo contro ogni forma di pericolosa diversità (negri, donne, forestieri e ragazzi dai capelli rossi troppo cortesi e colti, quindi sicuramente comunisti e gay), per cui Mildred subisce – con burbero, ironico stoicismo, senza indietreggiare di un passo – l’ostracismo dell’intero corpo sociale, compreso l’ex marito violento invaghitosi di una diciannovenne con evidenti problemi cognitivi.

Proprio questo picchiatore dai capelli unticci appiccherà il fuoco ai manifesti di Mildred, distruggendoli. Nella notte turbata dal crepitio della combustione rapida e violenta, il tentativo di spegnere le fiamme con degli estintori messo in atto da Mildred e dal figlio adolescente è una sequenza potente e ansiogena, di quelle che ormai si vedono raramente sullo schermo. La corsa inutile di Mildred sul prato e il suo cadere in ginocchio, arresa, restano incisi nella mente con un’intensità dolorosa.

Esacerbata, cancellando gli ultimi tratti caratteriali femminili, Mildred si vendica lanciando in piena notte delle molotov contro la stazione di polizia, non senza assicurarsi, con due telefonate, che non vi sia nessuno all’interno. Malauguratamente, Dixon (il sorprendente Sam Rockwell, in grado di tratteggiare un ottuso razzista, immaturo lettore di fumetti, omosessuale inconsapevole, succube della mamma alcolista e mascolina) distratto dalla lettera lasciatagli da Willoughby, nel frattempo suicidatosi a causa di un cancro allo stadio terminale, non si accorge degli squilli e resta ustionato nell’incendio.

Ma l’elaborata sceneggiatura di McDonagh, lirica e durissima, magnificamente scritta, prevede molti ribaltamenti e un’evoluzione psicologica dei personaggi. Così, il ragazzo di colore che si era occupato dell’affissione porta a Mildred i duplicati dei manifesti, previsti dal contratto, e l’indiretta caccia agli assassini può ricominciare.

Nessuno dei protagonisti mostra un’unica dimensione, tutti a un certo punto si abbandonano a un gesto di delicatezza. Il giovane agente pubblicitario Red Welby, gettato dalla finestra da Dixon, rivistolo nella stessa camera d’ospedale in cui è ricoverato, offre al poliziotto devastato dalle ustioni un bicchiere di succo d’arancia. Mildred, capace di una metodica invettiva contro la pedofilia cattolica e di varie efferatezze reattive (feroce ed esilarante la sequenza in cui pratica un foro nell’unghia di un dentista obeso e crudele col suo stesso trapano), raddrizza un insetto rovesciato perché non può sopportare la vista di quelle zampette che si agitano a vuoto nell’aria. In un altro momento si siede a conversare con una giovane cerva, immergendosi nella nostalgia della figlia e nella grazia espressa dall’animale. Forse “Dio non c’é e non importa come ci comportiamo gli uni con gli altri”, ma ciascuna di queste anime ferite porta in sé una fiammella, una necessità, la speranza che nonostante tutto ci possa essere una forma di esistenza e di relazioni meno misera di quella fin troppo conosciuta e praticata nel corso della vita.

Willoughby, per esempio, che si spara in testa dopo la giornata perfetta, trascorsa sul lago con la moglie e le due bambine. Non per disperazione, per solitudine “o altre sciocchezze del genere”, ma perché desidera morire dentro quell’istante di felicità, prima che il male lo corroda, prima che la lunga sofferenza logori i familari. Scrive splendide lettere di congedo, lievi, ironiche, sagge, commosse e romantiche, alla moglie, al pupillo Dixon e a Mildred che in fondo stima e a cui confida il dispiacere di andarsene senza aver trovato il colpevole della morte della figlia.

Mildred che piange dentro e non trova pace, crocifissa al senso di colpa germinato dalla riflessione incessante intorno alla sera fatale, a ciò che è successo, a ciò che è stato detto e non può essere cancellato né accettato. La figlia che desidera uscire e chiede in prestito l’auto, Mildred che rifiuta, le due che si insultano in modo irreparabile, la decisione della ragazza di andare a piedi gettando in faccia alla madre la provocatoria speranza di essere stuprata, la madre che risponde esasperata associandosi a questa speranza.

Dixon che accarezza con pudore i capelli della madre addormentatasi sul divano guardando la TV. Ancora Dixon che pensa di aver trovato il colpevole e si sottopone a un pestaggio brutale per procurarsi il dna dell’uomo (un militare in licenza che ha compiuto orribili crimini sessuali nei luoghi della missione – di pace sicuramente – ma non negli Stati Uniti).

Mildred e Dixon che partono in macchina per l’Idaho alla ricerca del militare – non è quello giusto, ma è pur sempre un violentatore -, però strada facendo si chiedono se davvero desiderano uccidere l’uomo. Chissà, forse no, forse l’importante è fare un viaggio insieme, parlare o restare in silenzio, sentirsi. Trovare una forma di requie, perdonarsi. Accettare.

luciatempestini0@gmail.com