Vincenzo Talarico, la dolce vita di un calabrese a Roma
All’inizio degli anni ottanta ho vissuto una stagione cinefila intensa e febbrile. Per una serie di curiose coincidenze mi sono trovato a condividerla con un ristretto gruppo di amici, tutti poco più che ventenni, approdati a Roma da ogni angolo d’Italia, molti dei quali come me avrebbero in seguito e in vario modo legato al cinema la propria professione. In quel periodo frenetico e rutilante tutti noi avevamo contratto una quantità di tic e di ossessioni individuali, la cui somma produceva vere e proprie manie collettive. Ad esempio, ognuno stilava la propria classifica in fatto di film, registi, attrici, attori, direttori della fotografia, etc., per poi confrontarla con le altrui preferenze, nell’immancabile rito officiato in orari improbabili all’uscita da un cineclub o alla fine di un’interminabile giornata festivaliera. Le graduatorie, tra l’altro, mutavano continuamente in virtù delle scoperte di sempre nuovi titoli, movimenti e cineasti faticosamente acquisite in un’era antecedente all’home video, al satellite, al web e a tutto quello che sarebbe venuto. Anche la mia classifica era pittosto dinamica e accanto a classici del cinema americano ed europeo, si infittivano i titoli delle nouvelles vagues di tutto il mondo, in particolare dei paesi scandinavi e dell’est Europa, per arrivare, peraltro con moderazione, fino a territori più esotici come l’India e l’estremo oriente. L’unico punto fermo era rappresentato dal film che dominava la vetta: La dolce vita di Federico Fellini. Questa scelta sconcertava non poco i miei amici che la consideravano un po’ banale, quasi scontata, oggi diremmo generalista, troppo “umanista” e contenutistica, incomprensibilmente stonata con la ricercatezza dei tanti titoli che la seguivano. Ogni volta sostenevo le mie ragioni con ardore e con puntiglio, invitando i miei amici a soffermarsi sull’universalità di quel capolavoro, capace di arrivare allo spettatore più semplice come a quello più avvertito grazie alla cifra stilistica personalissima del regista, all’impatto spettacolare davvero inedito per un film italiano, alla potenza dell’affresco sociale, alla magistrale struttura rapsodica, alla profondità del suo apologo. Ma dopo tante scaramucce, stanco di ripetere le solite argomentazioni, mi limitavo a rispondere che La dolce vita era il film che preferivo perché era quello che più aveva segnato la mia vita, peraltro senza renderla più dolce.
Con questa affermazione ingenuamente sibillina, intendevo alludere alla fascinazione totale esercitata dal film su di me quando lo vidi per la prima volta in televisione ancora adolescente, rimanendone fologorato. Ero già stato tante volte a Roma, sin da bambino, ma fu solo allora che decisi che lì avrei giocato il mio destino. Ad attrarmi era stata proprio quell’avventura vissuta da un provinciale che va a Roma, come tanti prima e dopo di lui, come il personaggio di Marcello nel film, ma anche come Fellini o lo stesso Flaiano, che è tra gli autori della sceneggiatura. Riconosco di essermi fortemente identificato con il protagonista che altri non è se non il Moraldo de I vitelloni e del mai realizzato Moraldo in città, in parte autobiograficamente “surrogato” da Fellini in Roma. Mi sentivo come il personaggio di un bildungroman ottocentesco e la mia sfida alla città labirintica e tentacolare sarebbe consistita nel rimanere integro e fedele a me stesso, resistendo a lusinghe, insidie e tentazioni. Insomma, di non finire come Marcello, reso cinico dalle troppe esperienze, inaridito dalle relazioni fasulle, svuotato dalle illusioni perdute- il romanzo che non scriverà più- incapace ormai di riconoscere l’immagine dell’ingenuità e della giovinezza rappresentate dal volto di Valeria Ciangottini sulla spiaggia di Fregene nell’ultima scena del film. Ero pronto dunque, al termine del liceo, a prendere il largo, lasciando Cosenza- dove pure mi ero speso senza riserve e da cui tanto avevo ricevuto, ma che non mi bastava più- alla volta della capitale dove avrei tentato di invertire l’amaro finale di quel romanzo di formazione di cui mi ero inventato protagonista. Se io sia riuscito o meno in questa impresa è certamente cosa difficile da raccontare, ma ciò che invece mi preme dire in questa occasione è di come seguendo la mia rotta mi sia ritrovato sulle tracce di un cosentino illustre che cinquant’anni prima aveva compiuto quello stesso percorso e che anche per questo divenne per me una figura di riferimento.
Sto parlando di Vincenzo Talarico, personaggio fondamentale di una stagione feconda e irripetibile, quella della cafè society romana, ovvero dell’incontro spontaneo e felice tra personalità provenienti dalla letteratura, dal giornalismo, dal cinema, dal teatro, dall’architettura e dalle arti figurative che, nel clima di euforia del dopoguerra fino a tutti gli anni sessanta, diedero vita ad una sorta di belle époque capitolina. Talarico era nato ad Acri nel 1909 ma si era trasferito nella capitale, per l’appunto, a metà degli anni venti. Qui aveva esordito dapprima come giornalista scrivendo di volta in volta da cronista parlamentare, notista di costume e critico teatrale, per assumere poi le vesti di scrittore, soggettista, sceneggiatore e perfino di attore per diletto. Nel corso di una carriera densa e inesausta, riconosciuta nel 1963 con il premio Saint Vincent, ha scritto da redattore, collaboratore o inviato speciale su vari quotidiani tra i quali Il Resto del Carlino, Il Messaggero, La Stampa e su rotocalchi come Tempo illustrato, Settimo giorno, Epoca, L’Europeo, Vie Nuove, Le Ore, Il Travaso. Per molti anni tenne la rubrica giornaliera “Gazzettino romano” sul quotidiano Momento Sera e nel 1952, dopo avervi a lungo collaborato, assunse la direzione del settimanale satirico ed anticlericale Cantachiaro. Ma Talarico a tutt’oggi è ricordato soprattutto per la sua appartenenza alla vita culturale ruotante attorno ad un folto circolo di intellettuali, all’interno del quale svolgeva spesso la funzione di collante e di amalgama. Scherzosamente, come si usava in quella cerchia, era soprannominato “il lepre” per la sua fisionomia inconfondibilmente asimmetrica, i capelli imbrillantinati portati all’indietro, lo sguardo strabico che gli dava un’aria ingannevolmente torva, il nasone, il labbro superiore sporgente, ma anche perché, alto e ben piantato com’era, attraversava rapidamente, a larghe falcate Piazza del Popolo, spostandosi dal Caffè Rosati, ritrovo di scrittori, pittori e cineasti, al Bar Canova, divenuto dalla metà degli anni cinquanta il punto d’incontro di quegli intellettuali che stavano dando vita all’avventura televisiva italiana negli uffici della RAI di via del Babbuino. In una Roma in cui quasi nessuno possedeva l’automobile e ci si spostava prevalentemente a piedi, era facile incontrare il flâneur Talarico mentre si portava dalla libreria Modernissima di via della Mercede alla libreria Rossetti in via Veneto, da una galleria d’arte all’altra tra via Margutta e via Borgognona, di teatro in teatro, da un Rosati all’altro, al tramonto in quello di piazza del Popolo, a notte alta ancora in quello di via Veneto. Con la sua aria cordiale e affabile, portava una ventata di allegria raccontando i retroscena più succosi della vita parlamentare o degli alterchi dietro le quinte dei teatri romani che tutti ascoltavano avidamente. Spesso gli capitava di contendersi quell’uditorio d’eccezione con il vulcanico Gian Carlo Fusco, anch’egli scrittore, giornalista e grande affabulatore.
Era un ambiente allegro per tante ragioni- per il sollievo di essere scampati agli orrori della guerra da poco finita, per l’ottimismo e il fervore che connotava quegli anni, per l’atmosfera goliardica e un po’ burlona dei suoi componenti, quasi tutti di origine provinciale, in maggioranza meridionali- ma indubitabilmente colto e raffinato. Un mondo che ci viene restituito vividamente attraverso i tanti attestati di affetto e le sapide testimonianze sullo scrittore- Giovanni Russo, Ugo Gregoretti, Ettore Zocàro, Ghigo De Chiara, Anna Proclemer, Aroldo Tieri, Bruno Caruso, Raffaele La Capria, Ettore Scola, Dario Fo e Franca Rame, Walter Pedullà, Franco Rispoli, Marisa Merlini, Aldo Giuffrè, Goffredo Fofi, Mario Verdone e altri- raccolte nel volume Vincenzo Talarico. Un calabrese a Roma, curato da Antonio Panzarella e Santino Salerno, pubblicato da Rubbettino in collaborazione con la Fondazione “Vincenzo Padula” di Acri e a suo tempo recensito sulle colonne di questo giornale. Tutti gli interventi ci raccontano, ciascuno dalla propria angolazione, di quelle memorabili serate animate da questa straordinaria brigata di geniali tiratardi che richiamavano stuoli di giovani aspiranti intellettuali. D’abitudine verso le sette di sera si ritrovavano nei vari caffè. Il nucleo storico era costituito da Leo Longanesi, Ennio Flaiano, Sandro De Feo, Ercole Patti, Vitaliano Brancati, Gian Carlo Fusco, i due pittori vignettisti Mino Maccari e Amerigo Bartoli, lo scultore Marino Mazzacurati ed altri. Talarico veniva direttamente dal giornale e portava le ultime notizie. A volte si aggregavano Alberto Moravia, Elsa Morante e Pier Paolo Pasolini, più tardi accompagnati dai giovani Alberto Arbasino ed Enzo Siciliano. Ma poteva capitare che la tavolata si allungasse per fare posto a Vittorio Gassman e Francesco Rosi, come pure ad Elio Petri ed Ettore Scola, registi alle prime armi. Passavano di frequente Massimo Bontempelli, Giuseppe Ungaretti o Aldo Palazzeschi, sostando per il tempo di qualche battuta. Emilio Cecchi, forte del prestigio di cui godeva, aveva sempre l’aria di pontificare, tanto da suggerire il motto” Cecchi dice si, Cecchi dice no”. Anche Giorgio De Chirico aveva assunto il contegno distaccato del mostro sacro, a differenza di suo fratello, Alberto Savinio, sempre spiritoso ed autore di molti calembours. Tra gli habitué c’erano anche i due pittori siciliani Francesco ”Ciccio” Trombadori e Bruno Caruso. La presenza più ieratica era costituita dal poeta Vincenzo Cardarelli, infagottato anche a luglio nel suo cappottone, che correggeva le bozze della fiera letteraria portategli dai giovani Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa. A pochi passi era facile imbattersi in Panfilo Gentile che discettava di liberalismo o nella cronista mondana Irene Brin che commentava le ultime opere di Burri e di Vedova. Si poteva disquisire di cravatte con lo scrittore Carlo Laurenzi o di cinema con l’estroverso Mario Soldati, mentre era sconsigliabile disturbare Pietro Germi intento a fumare il suo toscano. Con un po’ di fortuna si poteva incontrare anche Anna Magnani mentre gustava un gelato con Tennessee Williams o Giorgio Albertazzi mentre oziava al caffè Strega oppure Curzio Malaparte che vantava la sua conquista femminile più recente. Paradossalmente, l’unico che sarebbe stato difficile incontrare era proprio Federico Fellini, sempre alle prese con i suoi produttori o alla ricerca di comparse e che infatti identificò Via Veneto soprattutto con il Café de Paris, frequentato dall’ambiente cinematografaro più volgare e fracassone. Si discuteva di tutto, ma con leggerezza, preferendo la battuta tagliente alla disquisizione pedante. Per quanto strano potesse sembrare, i problemi nodali del paese restavano lontani: l’emigrazione verso il nord industriale, le lotte bracciantili, la legge truffa, il governo Tambroni, le cariche della Celere di Scelba, le scissioni del partito socialista, i legami di Togliatti con l’URSS, per non parlare dello scenario internazionale tutt’altro che disteso. Si preferiva parlare dell’ultimo varietà del Sistina o della superproduzione americana allestita a Cinecittà. Certo, l’epoca dell’impegno è ancora di là da venire, ma non è solo questo. C’era una forte tendenza a distrarsi, a godersi le cose belle della vita, a gioire del clima che induce ad un atteggiamento più scanzonato. E’ in fondo la stessa sensazione che provai io approdando a Roma a metà degli anni settanta, nonostante venissi da anni di attivismo politico e fossimo nel mezzo di una stagione contrassegnata da una forte conflittualità politica e sociale.
C’erano, ovviamente, eccezioni rilevanti come il gruppo del settimanale Il Mondo– De Caprariis, Cattani, Libonati, Gorresio, Compagna, Forcella, Muzio, Antonio Cederna, Nicola Chiaromonte e Giulia Massari, oltre ai soliti Flaiano, Brancati, Patti, Bartoli e Maccari- che con Mario Pannunzio in testa requisiva un tavolo da Rosati e prolungava così all’esterno le sue riunioni di redazione, esattamente come raccontava Eugenio Scalfari nel suo libro di memorie La sera andavamo in Via Veneto. Se Talarico si trovava a passare da lì non poteva non restare calamitato da quell’aria battagliera e anticonformista, polemica con le due chiese, quella cattolica e quella comunista, al punto da unirsi al gruppo e fare le ore piccole.
Una situazione che ricorre tra quanti lo hanno ricordato nel volume è quando Talarico raccontava a raffica aneddoti e storielle, veri e propri cavalli di battaglia entrati in un repertorio dalle repliche infinite. Spesso gli capitava di ridere così tanto da piegarsi in due. A lui e a Mazzacurati vengono attribuiti alcuni dei soprannomi al vetriolo affibbiati ai componenti dell’illustre combriccola: “il più grande poeta morente” (Vincenzo Cardarelli), “l’aquila a due tette” (Maria Bellonci), “il brutto addormentato nel basco” (Alberto Savinio), “l’incantatore di sergenti” (Filippo De Pisis), “l’Amaro Gambarotta” (Alberto Moravia), “Immondo De Amicis” (Pier Paolo Pasolini), “la salma” (Ercole Patti), “il cavaliere del lavoro altrui” (Sandro De Feo), “Platone di esecuzione” (Galvano Della Volpe), “la picassata alla siciliana” (Renato Guttuso), “antico tastamento” o anche “ultimo rappresentante della pittura framminchia” (Francesco Trombadori). Resta controverso se l’appellativo di “supercorto maggiore” fosse stato coniato da Talarico per Longanesi, Maccari o Bartoli, tutti e tre di bassa statura. Il suo collega Ghigo De Chiara, critico teatrale militante gli riconosce la primogenitura del diritto di dormire a teatro. A quanti da sempre si assopivano durante le rappresentazioni ma vergognandosene, Talarico indicò il percorso che portava dal sonno clandestino a quello ostentato. Teorizzò infatti che il sonno era di per sé un giudizio critico e una volta prese le difese di uno spettatore “abbioccato” e censurato dai vicini per l’eccessivo russare, tuonando: “Lasciate riposare questo galantuomo, il nemico è lassù!” additando i mediocri commedianti sul palcoscenico del Valle.
Il volume fa intuire però anche un Talarico meno ridanciano, più malinconico e riservato. Anna Proclemer osserva come in realtà non si sapesse nulla di lui, della sua vita privata, se avesse una compagna, se fosse innamorato. I più ignoravano finanche dove abitasse di preciso. Ettore Scola è pronto a scommettere che avesse molte donne ma che vivesse le sue storie quasi in segreto. Una volta, ricorda che eccezionalmente presentò agli amici una concorrente di Lascia o raddoppia? della quale sembrava invaghito ma di cui non si seppe più nulla. Il mio amico Adolfo Noto, alla fine degli anni settanta ne visitò lo studio ricostruito alla sua morte, avvenuta nel ’72, nella casa di Acri tale e quale come era a Roma e mi raccontò già all’epoca di essere rimasto colpito dalla quantità di foto e cartoline di attrici e soubrettes con messaggi affettuosi accanto alla collezione completa della Pléiade. Facevano anche la loro figura alcuni dipinti della pittrice Anna Salvatore con tanto di dedica. Era per tutti Vincenzino o soltanto Enzino per i più intimi. Si faceva apprezzare per la sua solida cultura mai ostentata, anzi, dissimulata in un atteggiamento quasi dissacratorio verso il mondo letterario più paludato, ma anche per la sua generosità e quei modi un po’ d’antan da gentiluomo del sud. Lo ricordo in tivvù ospite fisso di un programma condotto da Ettore Della Giovanna mandare su tutte le furie Gino Cervi, insinuando che fosse un tiranno con i suoi compagni di scena. Comprendo adesso che era tutto combinato. Il grande attore bolognese ne aveva una stima incondizionata. Anni fa, il poeta epigrammatico Gaio Fratini, all’epoca tra gli ultimi superstiti di quella stagione, durante un convegno sulla riviera adriatica, convertì un incontro di routine in un caloroso invito a cena appena seppe che provenivo dalla provincia cosentina proprio come il suo vecchio amico Enzino Talarico.
La sua frequentazione a tutto tondo dell’ambiente dello spettacolo lo mise a contatto con i personaggi più svariati. Il libro contiene, ad esempio, un ricordo toccante di Antonella Fulci – figlia di Lucio Fulci, artigiano del cinema consacrato solo di recente come un maestro dell’horror – che racconta di quando, alla morte della madre, fu proprio Talarico a prendersi cura di lei e della sorella portandole la domenica al cinema Dei Piccoli e sottraendo suo padre alla depressione e alla follia. Curiosamente un altro regista di “serie B”, Giulio Petroni (Tepepa, Labbra di lurido blu) nel corso di una serata dedicatagli dalla Cineteca Nazionale raccontò di quando, giovane praticante al Messaggero, coltivasse una grande ammirazione per Talarico, soprattutto quando apprese dai colleghi un aneddoto che lo riguardava, ovvero della volta in cui per compiacere una ragazza bella e spigliata conosciuta tempo prima in treno, ma che in realtà lavorava in un bordello di via degli Avignonesi, a due passi da Il Messaggero, Talarico pubblicò una sua foto in costume da bagno a corredo di un servizio sul Lido di Ostia. Il giorno dopo il direttore del Il Messaggero si vide recapitare una copia del quotidiano con una nota che censurava l’articolo di Talarico e la foto come “borghesemente osceno, con immagine da lupanare”. Era firmata da Benito Mussolini. D’altronde lo scrittore calabrese avrebbe avuto per sempre un conto aperto con il Duce. Sarebbe stato bollato da questi come un “ignobile libellista” quando alla caduta del fascismo firmò un articolo, “Claretta fiore del mio giardino”, dai riferimenti fin troppo espliciti. Un aneddoto gustoso che lo riguarda l’ho appreso invece dal regista Maurizio Liverani (Sai cosa faceva Stalin alle donne?), ex critico cinematografico di Paese Sera poi passato all’estrema destra. Liverani, insieme ad un altro amico, era tra quanti sfioravano i tavoli di Rosati o di Doney nella speranza di cogliere qualche battuta dei loro beniamini, allorquando furono avvicinati dal pittore Bartoli che ordì uno scherzo proprio ai danni di Talarico. I due si presentarono senza preavviso a casa del giornalista in via della Consulta (nel palazzo abitavano pure Paolo Stoppa e Rina Morelli) nelle prime ore del pomeriggio, proprio quando questi era impresentabile per via della retina che soleva portare a protezione della capigliatura impomatata e per la quale qualcuno lo aveva soprannominato ”Tenax” dalla marca di una nota brillantina.
Il volume contiene inoltre alcuni gustosissimi scritti di Talarico. Il primo ricostruisce l’interessante vita intellettuale ruotante intorno al Caffè Aragno, in via del Corso, negli anni del fascismo e della guerra partendo dalla storica tenzone che oppose il poeta Cardarelli al pittore Bartoli, giocata a colpi di burle micidiali e dalle tante ossessioni del critico musicale Bruno Barilli. Un altro, La giornata del poeta, è una farsa scritta con Brancati e ispirata al solito Cardarelli, ritrovata imprevedibilmente qualche anno fa dalla signora Rosetta Flaiano tra le carte del marito. Ma il più spassoso è certamente quello che ricostruisce la vicenda delle case di tolleranza in Italia attraverso le personali frequentazioni di Talarico di volta in volta accompagnatore di Brancati, Maccari, del pittore torinese Italo Cremona, di Orio Vergani. Alcuni episodi sono davvero esilaranti come quello che vede protagonista l’autore di Paolo il caldo, sedotto e avviluppato da tre “signorine” e per questo ribattezzato poi Laocoonte. Oppure la cronaca dell’ultima storica serata nel settembre del 1958, prima che le “case” chiudessero su disposizione della legge Merlin, trascorsa con Mario Soldati incontrato per caso nella farmacia Garinei di Piazza San Silvestro, un’istituzione per i nottambuli romani. Vi ho ritrovato l’atmosfera e le tipologie dei racconti ascoltati da Enzo Garinei, figlio dei proprietari e fratello di Pietro, lui stesso caratterista già popolare e dunque collega in un certo senso di Talarico. Nel libro è documentata pure la sua densa e non secondaria attività di soggettista e sceneggiatore per il cinema (Il lupo della Sila, Il Brigante Musolino, Anni facili, Pane, amore e fantasia, Pane, amore e gelosia, Il bigamo, Genitori in blue jeans, Il moralista, Anni ruggenti, etc.), per la radio (Lo scialle di Lady Hamilton), per la televisione con Luisa Sanfelice, scritto insieme ad Ugo Pirro (scomparso da poche settimane), andato in onda nel 1966 con la regia di Leonardo Cortese e interpretato dalla magnifica Lydia Alfonsi e Giulio Bosetti (la coppia de La Pisana). Sul finire degli anni novanta, ritrovandomi in una cena tra giurati a Salerno proprio con Ugo Pirro, gli raccontai di come qualche mese prima avessi suggerito al dirigente RAI responsabile della programmazione notturna di riproporre quel memorabile sceneggiato per il centenario della rivoluzione napoletana. Dovetti però recedere quando compresi che il mio titolato interlocutore non solo ignorava l’esistenza dell’originale televisivo in questione (poi malamente rifatto dai fratelli Taviani) ma non conosceva neppure la Repubblica napoletana del 1899 e tanto meno la nobildonna partenopea.
Come tutti sanno il pallino di Talarico era quello di fare l’attore, un po’ come il professor Alessandro Cutolo e l’industriale Guido Alberti. Prediligeva il personaggio dell’azzeccagarbugli meridionale, cui conferiva con la voce stentorea e la retorica tronfia quella riconoscibilità di tanti legulei di provincia o di politici tromboni a noi familiari. In questa veste si è trovato a fronteggiare senza soffrirne i più grandi mattatori della scena cinematografica a lui coevi, Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Alberto Sordi. E sempre rimanendo se stesso, facendo Talarico o dichiaratamente come nel film I complessi o calandosi nei panni di un personaggio dickensiano, dunque sopra le righe, come nello sceneggiato televisivo Il Circolo Pickwick (1968) di Ugo Gregoretti in cui, guarda caso, figurano pure proprio Cutolo e Alberti.
Come detto, morì nell’agosto del 1972 mentre si trovava a Fiuggi per le cure termali. Il referto parlò di trombosi ma gli amici più stretti restano convinti che sia morto di noia. Non mi diede tempo di incrociarlo e scambiare quattro chiacchiere magari in una trattoria di via della Croce o ad una prima dell’Eliseo, ad un passo da casa sua. In quello stesso anno scomparve pure Flaiano, appena sessantaduenne, lasciandomi la sensazione quando giunsi a Roma nel ’74, per iscrivermi all’università, che quel mondo da cui ero stato magnetizzato, fosse ormai agli sgoccioli. D’altronde ognuno deve vivere il proprio tempo e la capitale aveva in serbo per me altre avventure. Se così non fosse avrei corso il rischio di quanti scimmiottando la generazione che li aveva preceduti se ne stava fuori tempo massimo in quegli stessi luoghi ormai entrati nel mito ma senza l’atmosfera di un tempo. Tanto che un giorno Flaiano incontrando Mazzacurati sotto l’obelisco di Piazza del Popolo li additò e disse senza appello “credono di essere noi”.
Di solito si dice che all’autore sopravvivono le opere. In questo caso si tratterebbe di una formula ipocrita ed automatica. Sfortunatamente, per Malarico non è così. Eppure pochi anni fa, l’amico Tonino Barbieri, critico letterario casentino penetrante e misconosciuto, mi annunciò, entusiasta, la ripubblicazione da parte dell’editore Rubbettino, sempre d’accordo con la Fondazione “Vincenzo Padula” di Otto Settembre. Letterati in fuga in cui Malarico racconta con toni umoristici di quando all’indomani della fatidica data del 1943, lasciò la capitale occupata insieme a Longanesi, Soldati e Diego Calcagno. Sarebbe davvero auspicabile se pure gli altri titoli – Vita romanzata di mio nonno, Pasquino insanguinato, Le escursioni degli intellettuali, I passi perduti – fossero riproposti un po’ come ha fatto Sellerio rivalutando l’opera di Gian Carlo Fusco.
Certamente Talarico è stato un altro calabrese della diaspora e infatti coltivava un’amicizia profonda con suoi conterranei come Corrado Alvaro, Leonida Repaci, Aroldo Tieri, Leopoldo Trieste e Walter Pedullà che per gioco soleva ripetergli ”nos sumus romani qui ante fuimus calabri”. Come dire che si è orgogliosi delle origini calabresi ma si è felici di vivere a Roma. E questa contentezza traspare in Talarico, sempre pronto ad unirsi alla festa mobile che si sposta da un caffé a un salotto, da una trattoria a un premio letterario.
Credo che possa spiegarsi come l’euforica reazione a certe serate vuote della provincia in cui la noia ti cinge d’assedio, quando sembra che dall’esterno non possa giungere alcuna sollecitazione. È in questi casi che si attinge alle proprie risorse interiori, le stesse pazientemente accumulate al pari di una provvista di generi primari da serbare all’abbisogna, nei momenti difficili. Poi, invece, capita di ritrovarsi a Roma, presi da tante cose, sommersi da troppa grazia, al punto da non sapere cosa fare per prima. E allora, con sollievo si dà fondo finalmente a quel patrimonio gelosamente conservato, talvolta sperperandolo addirittura, in un’esplosione di socialità, creatività e comunicazione, come fece Talarico. È una sorta di momento della verità, in cui Roma rivela nitidamente quanto anche la sua grandezza recente sia stata debitrice del mondo culturale della provincia italiana.