Lavoro e consumo come carcere. “La classe operaia va in Paradiso” alla Pergola di Firenze

La classe operaia va in Paradiso

(liberamente tratto dal film di Elio Petri)

di Paolo Di Paolo dalla sceneggatura di Elio Petri e Ugo Pirro

regia di Claudio Longhi

 

Il sipario si apre rivelando l’ambientazione di una catena di montaggio, un nastro che scorre ritmicamente accompagnato dai movimenti convulsi degli operai.

A lato un violino suona.

Potrebbe essere una fabbrica, una scuola, un manicomio, una prigione.

Esatto. Una prigione.

Il palcoscenico è diviso da una grande grata, che divide chi lavora dentro i meccanismi produttivi dalla realtà circostante.

In scena una grande cella, che assorbe completamente la vita e la rende dissonante, sterile, piatta.

Un comunicato viene diffuso ogni giorno: “Lavoratori, buongiorno. La direzione aziendale vi augura buon lavoro. Nel vostro interesse, trattate la macchina che vi è stata affidata con amore. Badate alla sua manutenzione. Le misure di sicurezza suggerite dall’azienda garantiscono la vostra incolumità. La vostra salute dipende dal vostro rapporto con la macchina. Rispettate le sue esigenze, e non dimenticate che macchina più attenzione uguale produzione. Buon lavoro.”

Un carcere nel quale non è possibile vedere la luce, solo spiarla.

Gli operai sono circoscritti nella loro area ben distinta e, quando tentano di fuoriuscirne scendendo gli scalini del palcoscenico oppure balzando dalle porte della platea, subitamente si percepisce il loro sentirsi fuori luogo, il non sapere affrontare una vita senza ordini, tempi, cadenze.

E se il lavoro è così invasivo da far quasi dimenticare la vita personale, cosa accade quando il lavoro, pur arido e duro, viene a mancare?

Ludovico Massa, chiamato Lulù, è l’operaio più amato dai “padroni”, lavora a ritmi serrati, è un convinto cottimista, grazie ai suoi tempi si calcolano i cicli perfetti di produzione. Lulù è odiato dai colleghi perché è un servo dei padroni, privo di solidarietà umana e sindacale.

Lulù è contento così, riesce ad acquistare ciò che a lui sembra essenziale nella vita: una macchina, un elettrodomestico, un divano.

E’ soddisfatto fino a quando subisce un incidente sul lavoro e, durante la riparazione di un macchinario, perde una falange di un dito.

La vita cambia e cambiano le prospettive, tutto ciò che gli era parso, fino a quel momento, ordinario, giusto e concreto si mostra nei suoi aspetti di scientifica follia e davanti ai suoi occhi si delinea il congegno perverso che ha fatto perdere la ragione al collega che Lulù va a trovare in manicomio e, con lui seduto davanti, inizia a domandarsi se può la vita può davvero consistere in una macchina che, con l’aggiunta di una meticolosa attenzione, alimenta il rotore produttivo.

No, realizza che la vita non è questa.

Abbraccia gli slogan degli scioperi studenteschi e perde il lavoro.

I colleghi operai gli sono vicini, si battono per lui e uniti riescono a far riassumere nuovamente Lulù. Lui sembra essere grato di questa vittoria, di questo riconoscimento ma è diventato un altro uomo, quell’uomo che adesso è consapevole che il sogno fatto in una notte tormentata non è solo un sogno. Esiste un muro che lui deve sfondare, da solo o con l’aiuto degli altri. Un passepartout per portare un giorno la classe operaia in paradiso.

Come e dove potremmo collocare oggi Ludovico Massa, quale lavoratore potrebbe rappresentare nel nostro secolo, è sicuramente la domanda che ci poniamo.

La trama dell’opera teatrale oggi e del film degli anni ’70 ci appare una realtà lontana eppure, con uno sguardo più attento, non così lontana dai nuovi sistemi organizzati sul modello dell’annullamento globalizzato, sistematico dell’identità lavorativa individuale.

Un immaginoso, bizzarro, drammatico, alienante, musicale e coinvolgente lavoro di Paolo di Paolo, regia di Claudio Longhi e con la straordinaria sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro.